https://iclfi.org/pubs/spo/86/usa
Introduzione
Il seguente documento è stato adottato dall'Ottava conferenza della Lega comunista internazionale.
Da qualsiasi punto di vista, i trent’anni successivi al crollo dell’Unione Sovietica sono stati anni di relativa stabilità alla scala della storia mondiale. Ci sono state crisi e conflitti sanguinosi, ma sono stati l’eccezione piuttosto che la norma e sono stati modesti rispetto agli sconvolgimenti del Ventesimo secolo. I conflitti armati sono stati di minore intensità, il tenore di vita di milioni di persone è migliorato e molte parti del mondo hanno visto una liberalizzazione della società. Come è stato possibile tutto ciò sulla scia della distruzione dell’Urss, una sconfitta catastrofica per la classe operaia internazionale?
La classe dirigente imperialista e i suoi sicofanti proclamarono che questi sviluppi dimostravano in modo definitivo la superiorità del capitalismo liberale statunitense sul comunismo. Qual è stata la risposta di coloro che rivendicano il manto del marxismo? Il Partito comunista cinese (Pcc) è diventato il portabandiera della globalizzazione economica, ingraziandosi l’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) e relegando il socialismo a scopi puramente cerimoniali. Molti stalinisti filo-Mosca si sono semplicemente disintegrati. I raggruppamenti trotskisti, incapaci di giustificare la necessità di un partito rivoluzionario, hanno inseguito i movimenti liberali contro la guerra, l’austerità e il razzismo. Alcuni “marxisti” hanno continuato a predicare il socialismo per il futuro, ma nessuno ha costruito un’opposizione rivoluzionaria al trionfalismo liberale.
Oggi il liberalismo non ha più il vento in poppa. La pandemia di Covid-19 e la guerra in Ucraina hanno segnato una svolta nella situazione mondiale. La crisi sta diventando la norma e la stabilità l’eccezione. Poiché l’egemonia degli Stati Uniti è minacciata e tutti i fattori che hanno favorito la stabilità si stanno esaurendo, pochi si illudono che la strada da percorrere sia agevole. Il liberalismo ha ancora i suoi difensori (non da ultimo nel movimento operaio) ma non sono più fiduciosi e all’offensiva, ma isterici e reattivi, sentendo il terreno sgretolarsi sotto i piedi. Il liberalismo fronteggia veri rivali, dal populismo di destra e di sinistra, all’islamismo, al nazionalismo indù, fino allo stalinismo cinese. I liberali stessi si scannano sulla definizione di cosa è politically correct e sulle politiche identitarie. Ma mentre le nubi si addensano e l’imperialismo statunitense e i suoi alleati cercano di riprendere l’iniziativa, l’avanguardia del proletariato resta disorganizzata e disorientata.
La lotta per liberare il movimento operaio dall’opportunismo, iniziata da Lenin e proseguita da Trotsky, dev’essere ripresa e applicata ai compiti e alle dinamiche del mondo di oggi. L’Ottava Conferenza internazionale della Lci e questo documento cercano di gettare le fondamenta di questa lotta attraverso una critica del periodo di trionfalismo liberale post-sovietico e tracciando alcuni elementi fondamentali di analisi e di programma per la nuova epoca, caratterizzata dal declino dell’egemonia statunitense. La classe operaia mondiale si trova ad affrontare disastri e conflitti. Per questo è più che mai urgente la necessità di un partito d’avanguardia rivoluzionario internazionale in grado di guidarla al potere.
I. Le origini del mondo unipolare
Gli Stati Uniti emersero dalla Seconda guerra mondiale come dominatori indiscussi del mondo capitalista. La loro economia interna rappresentava il cinquanta per cento del Pil mondiale, detenevano l’ottanta per cento delle riserve mondiali di valuta forte, avevano l’esercito più potente ed erano il principale creditore del mondo. Usarono il loro dominio per rimodellare l’ordine internazionale. Il sistema di Bretton Woods stabilì che il dollaro americano fosse la valuta di riserva globale e fu creata un’intera serie di istituzioni (Onu, Fmi, Banca mondiale, Nato) per sancire il dominio degli Stati Uniti e gettare le basi di un ordine mondiale capitalista liberale.
Nonostante il potere economico preponderante degli Stati Uniti, l’Urss rappresentava un importante contrappeso. L’Armata Rossa era una forza formidabile che controllava tutta l’Europa orientale. Nonostante i tentativi di Stalin di ottenere un’intesa duratura con l’imperialismo statunitense, non fu possibile alcun accordo. L’esistenza e la forza dell’Unione Sovietica rappresentavano una sfida al dominio del capitalismo americano sul mondo. In tutto il mondo, le lotte anticoloniali erano in pieno svolgimento e le forze antimperialiste guardavano all’Urss per un sostegno politico e militare. La vittoriosa Rivoluzione cinese del 1949 estese ulteriormente il peso del mondo non capitalista, creando isteria e panico negli Stati Uniti. Il mondo era effettivamente diviso in due sfere d’influenza concorrenti che rappresentavano due sistemi sociali rivali.
Mentre le altre potenze imperialiste si ricostruivano e gli Stati Uniti si impegnavano in un’avventura militare anticomunista dopo l’altra, apparvero i primi chiari segni di sovraestensione. La sconfitta degli Stati Uniti in Vietnam rappresentò un punto di svolta, aprendo un periodo di turbolenze economiche e politiche in patria e all’estero. All’inizio degli anni Settanta c’erano buone ragioni per credere che il cosiddetto “secolo americano” stesse per finire. Tuttavia, le aperture rivoluzionarie della fine degli anni Sessanta e dell’inizio degli anni Settanta in Francia (’68), Cecoslovacchia (’68), Québec (’72), Cile (’70-’73), Portogallo (’74-’75), Spagna (’75-’76), si conclusero tutte con una sconfitta. I dirigenti opportunisti della classe operaia, che determinarono queste sconfitte, diedero all’imperialismo lo spazio necessario per stabilizzarsi. Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta l’imperialismo tornò all’offensiva, segnando l’inizio dell’era neoliberista delle privatizzazioni e della liberalizzazione economica. Nel 1981 Reagan inflisse una sconfitta decisiva alla classe operaia statunitense, stroncando lo sciopero dei controllori del traffico aereo del sindacato Patco. Seguirono altre sconfitte per la classe operaia internazionale, in particolare quella dei minatori britannici nel 1985. In questo periodo fu esercitata una pressione sempre maggiore sull’Urss, la guerra fredda fu portata a nuovi livelli e gli Stati Uniti sfruttarono la spaccatura sino-sovietica formando un’alleanza antisovietica con la Cina.
Alla fine degli anni Ottanta, l’Urss e il blocco orientale erano in profonda crisi economica e politica. La ritirata dell’Armata rossa dall’Afghanistan e la vittoria controrivoluzionaria di Solidarnosć in Polonia demoralizzarono ulteriormente la burocrazia al potere a Mosca. Dopo la svendita della Ddr [Germania Est] da parte di Mosca e l’accettazione della riunificazione tedesca, passò poco tempo prima che l’Unione Sovietica fosse a sua volta svenduta. Le pressioni dell’imperialismo mondiale, combinate con la demoralizzazione della classe operaia dovuta a decenni di tradimento stalinista, portarono alla liquidazione finale delle conquiste della Rivoluzione d’Ottobre. Nel 1991 l’equilibrio internazionale delle forze di classe si era decisamente spostato dalla parte dell’imperialismo a spese della classe operaia e degli oppressi di tutto il mondo.
II. Il carattere reazionario del periodo post-sovietico
Ultra-imperialismo made in Usa
Con il crollo dell’Urss, l’ordine mondiale non fu più definito dal conflitto tra due sistemi sociali, ma dall’egemonia degli Stati Uniti. Non esistevano singoli Paesi o gruppi di Paesi che potessero competere con gli Usa. Il loro Pil era quasi il doppio di quello del loro più vicino rivale, il Giappone. Controllavano il flusso dei capitali globali. Militarmente, nessuna potenza poteva nemmeno avvicinarsi. Il modello americano di democrazia liberale divenne l’apice del progresso verso il quale dovevano convergere tutti i Paesi.
Per molti versi l’ordine che emerse assomigliava all’”ultra-imperialismo”, un sistema in cui le grandi potenze si accordano per saccheggiare insieme il mondo. Questo non fu causato dall’evoluzione pacifica del capitale finanziario, come previsto da Karl Kautsky, ma dalla supremazia di un’unica potenza costruita sulle ceneri dell’imperialismo europeo e giapponese dopo la Seconda guerra mondiale. Gli Stati Uniti ricostruirono i resti di questi imperi unendoli in un’alleanza anticomunista durante la Guerra fredda. Quando la Guerra fredda finì, questo fronte unito imperialista non venne spezzato, ma sotto molti aspetti venne rafforzato. Ad esempio, la riunificazione tedesca non portò ad un inasprimento delle tensioni in Europa, come molti temevano, ma avvenne con la benedizione degli Stati Uniti e della Nato.
L’eccezionale stabilità del periodo post-sovietico si spiega con i vantaggi schiaccianti di cui gli Stati Uniti godevano rispetto ai loro rivali, combinati con l’apertura al capitale finanziario di vaste aree di mercato precedentemente non sfruttate. Nel 1989 un terzo della popolazione mondiale viveva in Paesi non capitalisti. L’ondata di controrivoluzione iniziata in quell’anno ha portato alla completa distruzione di molti Stati operai del mondo o, come nel caso della Cina, all’apertura al capitale imperialista pur mantenendo le basi di un’economia collettivizzata. Questi sviluppi allungarono la vita all’imperialismo. Invece di azzannarsi per le quote di mercato, Germania, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti hanno collaborato per portare l’Europa dell’Est nell’ovile politico ed economico dell’Occidente. L’Ue e la Nato sono state ampliate di pari passo fino ai confini della Russia. In Asia si è verificata una situazione analoga: Stati Uniti e Giappone hanno collaborato per promuovere e sfruttare la liberalizzazione economica in Cina e nel resto dell’Asia orientale e sudorientale.
Il fronte unito delle grandi potenze ha lasciato ben poche alternative al resto del mondo, se non quella di obbedire ai diktat politici ed economici degli Usa. In un paese dopo l’altro, il Fmi e la Banca mondiale hanno riscritto le regole in base agli interessi del capitale finanziario statunitense. Il “neoliberismo” era già ben avviato negli anni Ottanta, ma la distruzione dell’Unione Sovietica gli diede un nuovo impulso. I pochi Paesi che si sono rifiutati o cui è stato impedito di seguire la strada tracciata dagli Stati Uniti (Iran, Venezuela, Corea del Nord, Cuba, Iraq, Afghanistan), non hanno rappresentato una minaccia significativa per l’ordine globale.
Questo favorevole equilibrio di potere non solo creò lucrose opportunità di investimento per gli imperialisti, ma ridusse anche i rischi associati al commercio estero. I capitalisti potevano investire e commerciare all’estero sapendo che il dominio politico e militare degli Stati Uniti li metteva al riparo da conflitti importanti o da governi troppo ostili. Questi fattori hanno portato a una crescita significativa del commercio internazionale, a una massiccia delocalizzazione della produzione e a un’esplosione della circolazione internazionale dei capitali, ovvero alla globalizzazione.
Una risposta marxista alla globalizzazione
I sostenitori dell’imperialismo liberale attribuiscono alla globalizzazione il merito di un forte aumento del tenore di vita in molte parti del mondo e di prezzi generalmente più bassi per i beni di consumo. È innegabile che l’estensione della divisione globale del lavoro negli ultimi trent’anni abbia portato a uno sviluppo delle forze produttive a livello internazionale. Ad esempio, il consumo energetico pro capite dei Paesi a basso e medio reddito è più che raddoppiato, l’alfabetizzazione mondiale è salita al novanta per cento, la produzione di automobili e di acciaio è più che raddoppiata. A prima vista questi sviluppi progressivi sembrano in conflitto con la teoria marxista dell’imperialismo, che sostiene che il capitalismo è giunto alla sua fase finale, in cui il dominio del capitale monopolistico porta al parassitismo e alla decadenza a lungo termine. Tuttavia, lungi dall’essere contraddetta dal corso degli eventi, solo l’analisi marxista è in grado di spiegarli pienamente e di mostrare come l’ordine mondiale liberale non conduca ad un graduale progresso sociale ed economico, ma alla crisi della società.
Tanto per cominciare, non è affatto necessario attribuire un ruolo progressivo al capitale finanziario per spiegare una crescita sostenuta delle forze produttive. Le condizioni che seguirono al crollo dell’Unione Sovietica (riduzione della minaccia militare, indebolimento del movimento operaio, riduzione del rischio negli investimenti esteri, liberalizzazione diffusa) hanno permesso all’imperialismo di superare per un certo periodo la sua tendenza al declino. In effetti, lo stesso Trotsky prevedeva questa possibilità:
Questo è esattamente ciò che è accaduto. A seguito di un drammatico cambiamento nel rapporto tra le forze di classe a scapito del proletariato, il capitalismo ha ottenuto una nuova vita. Ma questa poteva essere solo una tregua temporanea nella tendenza generale al declino dell’imperialismo che, avendo fatto il suo corso, sta ora tornando alla norma.
In secondo luogo, per i difensori del capitalismo la superiorità del libero mercato rispetto alle economie pianificate è dimostrata dal confronto tra gli standard di vita degli Stati operai deformati dell’Europa dell’Est e quelli attuali (il tipico esempio è la Polonia). In realtà, questa affermazione può essere confutata anche tralasciando il fatto che per alcuni aspetti le condizioni sono di fatto peggiorate: disuguaglianza, condizione delle donne, emigrazione di massa, ecc. I marxisti ortodossi, cioè i trotskisti, hanno sempre sostenuto che le economie pianificate degli Stati operai isolati, nonostante i loro enormi vantaggi, non potevano prevalere su quelle delle potenze capitaliste avanzate a causa della maggiore produttività di queste ultime e della divisione internazionale del lavoro. Gli stalinisti sostenevano che l’Unione Sovietica da sola (e in seguito con i suoi alleati) avrebbe potuto superare i Paesi capitalisti avanzati grazie alla “coesistenza pacifica” con l’imperialismo. Ma è proprio l’impossibilità di una coesistenza pacifica ad escludere questo sviluppo.
Le potenze imperialiste hanno sempre mantenuto un’estrema pressione economica e militare sull’Urss e sugli altri Paesi del Patto di Varsavia. Questi attacchi ne hanno ostacolato il progresso economico. Ad essi si è sommata la cattiva gestione burocratica che necessariamente deriva dal tentativo di “costruire il socialismo” in condizioni di isolamento e povertà. La rapida crescita economica della Polonia capitalista è dovuta alla sua piena integrazione nel commercio globale, cosa che era preclusa alla devastata economia postbellica della Repubblica popolare polacca. Non si può paragonare onestamente il tenore di vita di una fortezza assediata con una che non lo è. La superiorità delle economie pianificate è del tutto evidente se si guarda agli incredibili progressi raggiunti nonostante l’ambiente internazionale ostile in cui si trovavano. Questo vale per la Polonia come per l’Unione Sovietica, Cuba, la Cina e il Vietnam.
In terzo luogo, i difensori dell’ordine mondiale liberale sostengono che la diminuzione dell’intensità e del numero delle guerre dopo la Seconda guerra mondiale e ancor più dopo il crollo dell’Unione Sovietica, dimostra che il liberalismo e la globalizzazione portano gradualmente alla pace. Alcuni aspetti fattuali di questa affermazione possono essere contestati, ma è innegabile che nessun conflitto degli ultimi 75 anni si avvicina al massacro su scala industriale avvenuto con le due guerre mondiali. Ancora oggi, “il mantenimento della pace in Europa” resta il principale argomento utilizzato per difendere l’Unione Europea (Ue). La verità è che l’assenza di una nuova guerra mondiale è solo il prodotto del dominio degli Stati Uniti sui loro rivali, un rapporto di forze necessariamente temporaneo. Come spiegava Lenin:
Riconoscere che il periodo post-sovietico sia stato un periodo di relativa pace non cancella in alcun modo il fatto che ci sono state numerose guerre molto brutali. L’esercito statunitense si è impegnato quasi continuamente in guerre a bassa intensità per affermare la propria potenza militare e assicurarsi il diritto di sottomettere “pacificamente” milioni di persone attraverso l’espansione del capitale finanziario. Lungi dal portare alla pace nel mondo, questa dinamica non fa che preparare nuove guerre di inimmaginabile brutalità per ridividere ancora una volta il mondo.
In quarto luogo, la crescita delle forze produttive non è avvenuta grazie a un mitico libero scambio, ma sotto il giogo e secondo gli interessi del capitale monopolistico controllato da alcune grandi potenze. Ciò ha significato che qualsiasi progresso a breve e medio termine si sia verificato in alcune regioni del mondo, è stato accompagnato da una maggiore dipendenza dai capricci finanziari delle potenze imperialiste, in primis gli Stati Uniti. Ad esempio, si possono considerare diversi indicatori socio-economici e constatare un miglioramento del tenore di vita in Messico a partire dagli anni Novanta. Ma questo è avvenuto al prezzo di una subordinazione economica molto più profonda agli Stati Uniti e della devastazione di alcuni strati della popolazione, in particolare dei contadini. Questa situazione fa sì che in tempi di crescita gli imperialisti traggano enormi profitti dai Paesi assoggettati mentre, in caso di crisi, possono estorcere concessioni politiche ed economiche, approfondendo ulteriormente l’oppressione nazionale. Tutto ciò dimostra che la crescita economica a breve termine non vale il prezzo dell’asservimento all’imperialismo.
Infine, cosa fondamentale, il crollo dell’Unione Sovietica non ha inaugurato una fase superiore del progresso umano, ma il trionfo dell’imperialismo statunitense, vale a dire il dominio dei rentiers finanziari, i “tagliatori di cedole” americani sul mondo. È proprio il dominio di questa classe a limitare l’ulteriore sviluppo delle forze produttive e a portare al declino sociale. Questo è vero in primo luogo negli Stati Uniti. Nell’Imperialismo Lenin spiegava:
Questo descrive perfettamente il carattere dell’economia statunitense. La crescita senza precedenti dei suoi interessi finanziari internazionali ha inaridito la fonte stessa del potere globale degli Stati Uniti: la loro base industriale un tempo potente. Le delocalizzazioni, la cronica mancanza di investimenti nelle infrastrutture, i prezzi astronomici delle case, un’industria sanitaria sanguisuga, un’istruzione carissima e di bassa qualità: sono tutti prodotti del carattere sempre più parassitario del capitalismo americano. Anche la potenza militare degli Stati Uniti è minata dall’erosione dell’industria.
La classe dirigente americana ha cercato di compensare il declino economico del Paese con speculazioni selvagge, credito a basso costo e stampando denaro. Come ha osservato Trotsky, “quanto più l’economia si impoverisce, tanto più ricca è l’immagine riflessa nello specchio del capitale fittizio”. (“Relazione sulla crisi economica mondiale e sui nuovi compiti dell’Internazionale comunista”, giugno 1921). Questo preannuncia un disastro economico. L’intero tessuto sociale del Paese sta marcendo e strati sempre più vasti della classe operaia e degli oppressi sono gettati nell’indigenza.
A questa decadenza interna corrisponde una diminuzione del peso economico nel mondo. Se nel 1970 rappresentava il 36 per cento del Pil mondiale, oggi l’economia statunitense ne rappresenta meno del 24 per cento. Questa tendenza accomuna tutti gli imperialisti. Se nel 1970 le prime cinque potenze imperialiste (Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia e Gran Bretagna) rappresentavano insieme il 60 per cento del Pil mondiale, oggi la percentuale è del 40 per cento. Da un lato, l’aumento fenomenale dell’esportazione intern nelle moderne relazioni capitalistiche, creando un gigantesco proletariato in Asia orientale e in altre parti del mondo.
Sono i cosiddetti Paesi a medio reddito, e la Cina in particolare, che hanno visto aumentare il proprio peso nell’economia mondiale. Tuttavia, nonostante i progressi economici, questi Paesi rimangono subordinati al capitale finanziario internazionale. Gli Stati Uniti restano incontrastati quanto a potere finanziario: il dollaro regna ancora sovrano, gli Usa controllano le principali istituzioni internazionali e 14 delle 20 principali società di gestione patrimoniale sono americane e controllano un capitale combinato di 45 mila miliardi di dollari, l’equivalente di circa la metà del Pil mondiale. (Le altre sei società di gestione patrimoniale sono svizzere, francesi, tedesche o britanniche. Delle prime sessanta, nessuna proviene dalla Cina, dalla Corea del Sud o da altri cosiddetti “Paesi di recente industrializzazione”.) Questa crescente contraddizione tra la posizione egemonica che gli Stati Uniti ancora detengono e il loro ridotto potere economico reale non è sostenibile ed è la causa principale della crescente instabilità economica e politica nel mondo.
La crescita del commercio mondiale, l’industrializzazione dei Paesi neocoloniali e lo sviluppo della Cina stanno minando l’egemonia statunitense. Per mantenere la propria posizione, gli Stati Uniti devono invertire la dinamica attuale. Ciò significa smantellare le basi della globalizzazione scontrandosi con la Cina, facendo pressione sulle neocolonie, erigendo barriere tariffarie e riducendo le briciole concesse agli alleati. Fondamentalmente, l’argomento più definitivo contro la globalizzazione è che lo sviluppo delle forze produttive va contro gli interessi di quella stessa classe su cui si basa la globalizzazione: la borghesia imperialista americana. Basta questo a dimostrare che il tentativo di preservare o di rattoppare l’ordine mondiale liberale non è altro che una fantasia reazionaria.
Ciò non significa che gli Stati Uniti non possano riuscire a rafforzare la propria posizione, come è avvenuto nel 1989. Ma ciò potrebbe avvenire solo a costo di sconfitte catastrofiche per la classe operaia internazionale e non servirebbe a fermare l’inesorabile decadenza dell’imperialismo. L’unica forza che può porre fine alla tirannia imperialista e inaugurare uno stadio di sviluppo veramente superiore è la classe operaia internazionale. La globalizzazione ne ha infatti rafforzato il potenziale rivoluzionario, rendendola oggi più forte, più internazionale e più oppressa a livello nazionale che mai. Finora, tutto ciò non si è tradotto in un rafforzamento politico. Da questo punto di vista, il periodo post-sovietico ha gettato il movimento operaio davvero molto indietro.
III. Il liberalismo e il mondo post-sovietico
Trionfalismo liberale
Il crollo dell’Unione Sovietica ha portato non solo a grandi cambiamenti nell’equilibrio economico, politico e militare delle forze internazionali, ma anche a grandi cambiamenti ideologici. Durante la Guerra fredda, le classi dirigenti dell’Occidente si sono presentate come i difensori della democrazia e dei diritti individuali contro la tirannia del “comunismo totalitario”. In fondo si trattava di una giustificazione ideologica per l’ostilità verso gli Stati operai deformati e le lotte anticoloniali. Con il crollo del blocco sovietico è stata proclamata la morte del comunismo e il trionfalismo liberale è diventato l’ideologia dominante, riflettendo il cambiamento delle priorità degli imperialisti, dallo scontro con il “comunismo” alla penetrazione dei mercati appena aperti in Europa orientale e in Asia.
La fine della storia e l’ultimo uomo (1992) di Francis Fukuyama, incarna l’arroganza e il trionfalismo del primo periodo post-sovietico. Il capitalismo liberale veniva proclamato l’apice della civiltà umana, destinata a diffondersi in tutto il mondo. Naturalmente, alla base di questa visione fantastica c’era l’estensione molto reale del capitale imperialista in tutto il globo. Il trionfalismo liberale era la giustificazione ideologica di questo processo. Gli Stati Uniti e i loro alleati dominavano il mondo in nome del progresso economico e sociale: insomma la versione moderna del fardello dell’uomo bianco.
È dietro questa copertura ideologica che gli Stati Uniti hanno condotto i loro vari interventi militari nel periodo post-sovietico. La prima guerra del Golfo e l’intervento in Serbia erano per “proteggere le piccole nazioni”. L’intervento in Somalia era per “salvare gli affamati”. Questa ideologia è stata sancita dalle Nazioni Unite come “responsabilità di proteggere”. Come indica il nome della dottrina, essa proclama che le grandi potenze hanno la responsabilità di intervenire militarmente per proteggere i popoli oppressi del mondo. Proprio perché non rientrava perfettamente in questo schema, la guerra in Iraq di Bush Jr. ha incontrato tanta opposizione. Detto questo, nei suoi fondamenti non era diversa dagli altri interventi statunitensi di questo periodo. Il loro scopo era innanzitutto quello di affermare l’egemonia degli Stati Uniti sul mondo, non di garantire vantaggi economici o strategici a lungo termine. Gli alleati degli Usa che si sono opposti a interventi come quello in Iraq, lo hanno fatto perché non ritenevano che valesse la pena investire ingenti risorse per dimostrare per l’ennesima volta che gli Stati Uniti potevano schiacciare un piccolo Paese. Meglio raccogliere i frutti dell’ordine americano senza pagarne i costi.
Molto più significativa dei conflitti armati di questo periodo è stata la penetrazione economica del capitale finanziario imperialista in ogni angolo della terra. Il processo di globalizzazione è stato accompagnato e favorito da tutta una serie di principi ideologici. Una sorta di internazionalismo imperialista divenne il consenso nella maggior parte dei Paesi occidentali. Lo Stato-nazione era considerato un ricordo del passato e il libero commercio, l’apertura dei mercati dei capitali e gli alti livelli di immigrazione erano visti come la strada verso il progresso e la pace nel mondo. Ancora una volta, questi alti principi riflettevano gli interessi specifici della classe dominante e venivano utilizzati per calpestare i diritti nazionali delle nazioni oppresse, deindustrializzare l’Occidente, importare manodopera a basso costo e aprire i mercati al capitale e alle merci imperialiste.
Il movimento operaio nel periodo post-sovietico
Nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, la classe operaia non aveva alla sua testa un’avanguardia rivoluzionaria consapevole. Ciononostante, disponeva di una serie di importanti conquiste: l’Unione Sovietica, i nuovi Stati operai del dopoguerra (a cui si aggiunsero poi Cina, Cuba, Vietnam e Laos) e un potente movimento operaio nel mondo capitalista. Quest’ultimo comprendeva sindacati forti e partiti operai di massa. Tuttavia, in ognuno di questi casi le direzioni burocratiche opportuniste hanno costantemente indebolito e svuotato queste roccaforti del potere operaio. Quando negli anni Ottanta i sindacati negli Stati Uniti e in Gran Bretagna furono attaccati in modo concertato e feroce, le loro direzioni si dimostrarono incapaci di respingere queste offensive, nonostante gli eroici sacrifici dei lavoratori. Nell’Europa dell’Est la burocrazia sovietica liquidò una posizione dopo l’altra senza combattere, fino a liquidare sé stessa. L’insieme di queste sconfitte ha smantellato l’intera posizione postbellica del proletariato internazionale.
Questi disastri sono stati sfruttati dai capitalisti, che hanno fatto leva sul loro vantaggio, strappando sempre più conquiste a un movimento operaio indebolito e disorientato. i servizi pubblici statali sono stati privatizzati, i partiti operai come il Partito comunista italiano, un tempo potente, sono stati semplicemente liquidati e in Occidente sempre più industrie sono state chiuse. Questi colpi oggettivi inferti alla classe operaia hanno causato demoralizzazione e una svolta a destra nel movimento operaio.
Nei Paesi imperialisti la maggior parte dei capi socialdemocratici, delle sinistre staliniane e dei vertici sindacali abbracciarono apertamente il trionfalismo liberale. Il riformismo e il sindacalismo della vecchia scuola erano considerati troppo radicali per questa nuova era. Si diceva che la lotta di classe era finita, che i sindacati dovevano diventare rispettabili (cioè impotenti) e che il socialismo era al massimo un’utopia. Nel movimento operaio esisteva un’opposizione alle privatizzazioni e al libero scambio, ma era minima e minata dalla convinzione che fossero inevitabili. Il progetto del New Labour di Tony Blair è stato il simbolo di questo spostamento a destra. Blair cercò di trasformare il Partito laburista da partito della classe operaia basato sui sindacati in un partito simile al Partito democratico statunitense. Al governo, portò avanti riforme neoliberali radicali, con una patina di modernità e di valori sociali progressisti. Mentre i nuovi “dirigenti operai” (in Gran Bretagna e non solo) rifiutavano l’esistenza stessa di un movimento operaio e tutti i principi su cui questo era stato costruito, le organizzazioni tradizionali venivano ulteriormente indebolite e svuotate. Il predominio del liberalismo nei sindacati e nei partiti operai ha fatto sì che il movimento operaio si tagliasse le gambe da solo, portandolo all’attuale stato di debolezza.
I Paesi oppressi dall’imperialismo
In Occidente e in Giappone, la posizione della classe operaia è stata indebolita dalla delocalizzazione dell’industria. Invece in molti Paesi oppressi dall’imperialismo l’industria ha conosciuto un boom, ma il proletariato ha visto la sua posizione politica sostanzialmente degradata nel periodo post-sovietico. Come spiegare questa debolezza in un contesto di oggettivo rafforzamento della classe operaia? Tenendo conto delle ampie variazioni tra Paesi, è possibile stabilire una tendenza generale. Il contesto internazionale degli anni Ottanta e Novanta ha portato a un rafforzamento della presa dell’imperialismo sui Paesi “in via di sviluppo” ed “emergenti”. Questo, a sua volta, ha favorito un rafforzamento del liberalismo a scapito del nazionalismo del Terzo Mondo e della politica militante della classe operaia. Mentre il liberalismo su questioni sociali come la sessualità, la razza e la religione non ha fatto grandi progressi, il liberalismo economico (neoliberismo) e, in una certa misura, il liberalismo politico (democrazia formale) sono diventati dominanti.
A livello politico, la convergenza internazionale verso la democrazia liberale è stata in parte il risultato della politica estera statunitense, che vedeva sempre più nelle riforme democratiche un modo ottimale per arginare le rivolte sociali. Ma anche i regimi interni dei Paesi neocoloniali furono fortemente influenzati dall’indebolimento del movimento operaio a livello internazionale. Le élite si sentivano più sicure della propria posizione ed erano in grado di fare concessioni, mentre gli oppressi erano in posizione di debolezza, spinti sempre più a rinunciare ad un cambiamento radicale. Ciò ha ridotto l’asprezza delle contraddizioni interne, consentendo a Paesi come la Corea del Sud, Taiwan, Brasile e Sudafrica di sostituire le dittature quasi totalitarie con una dose di democrazia borghese. Per i regimi che si sono basati più sulla collaborazione di classe che sulla repressione, il contesto mutato ha ridotto la necessità di fare concessioni al movimento operaio. In Messico, ad esempio, il vecchio regime monopartitico corporativo che era durato 70 anni è stato gradualmente distrutto e con esso gran parte dell’influenza dei sindacati.
A livello economico, l’esistenza dell’Unione Sovietica aveva consentito ai Paesi neocoloniali di trovare un equilibrio tra le due grandi potenze. Molti regimi nazionalizzarono importanti settori economici ed ottennero un relativo controllo sui flussi di capitale nei rispettivi Paesi. Si trattava di modelli inefficienti e corrotti, che però permettevano una certa indipendenza dagli Stati Uniti e dagli altri imperialisti. Il crollo dell’Unione Sovietica ha messo la parola fine a questi modelli. I Paesi neocoloniali non ebbero più altra scelta che quella di allinearsi totalmente ai diktat economici degli imperialisti, svendendo le vecchie strutture corporative e stataliste.
Anche il movimento operaio del mondo neocoloniale ha capitolato di fronte alle accresciute pressioni liberali, sebbene in modi diversi dall’Occidente. In alcuni casi, come il Brasile e il Sudafrica, i partiti operai precedentemente repressi, il Partido dos Trabalhadores (Pt) e il Partito comunista sudafricano (Sacp), sono diventati esecutori dei nuovi regimi “democratici” neoliberali. In Messico, la resistenza della classe operaia al neoliberismo è stata messa a rimorchio del Partido de la Revolución Democrática (Prd), una scissione populista di sinistra dal partito al potere. Da parte sua il Prd non si opponeva a una maggiore penetrazione del capitale statunitense in Messico, ma cercava solo di ottenere condizioni migliori per lo stupro del Messico. In molti Paesi il movimento sindacale si è mescolato con il mondo delle Ong liberali, sostenendo i “diritti umani” e gli “obiettivi di sviluppo del millennio” piuttosto che la lotta di classe. In questo modo si è creata una situazione in cui la classe operaia di molti Paesi, pur accrescendo la propria forza economica, era politicamente paralizzata da direzioni che capitolavano alle forti correnti nazionali e internazionali che spingevano verso il liberalismo e l’integrazione con l’imperialismo mondiale.
Neoliberismo con caratteristiche cinesi
Le prospettive sembravano fosche per il Partito comunista cinese dopo l’ondata controrivoluzionaria che si era propagata dalla Germania Est all’Urss. La sanguinosa repressione della rivolta di Tienanmen aveva isolato il regime sulla scena mondiale. Per gli Stati Uniti e i loro alleati, era solo una questione di tempo prima che la Cina seguisse la strada dell’Unione Sovietica e si integrasse nella crescente rete liberaldemocratica. Ma il Pcc non imboccò questa strada. La lezione che trasse da Tienanmen e dalle controrivoluzioni del blocco orientale fu che per rimanere al potere doveva combinare un’elevata crescita economica con uno stretto controllo politico. Per raggiungere questo obiettivo, ha accelerato la corsa alle “riforme ed aperture” avviato da Deng Xiaoping alla fine degli anni Settanta, che consisteva nella liberalizzazione del mercato agricolo e industriale, nelle privatizzazioni e nell’attrarre capitali stranieri. Oggi la presa del Partito comunista sul potere appare più salda che mai. Per il Pcc e i suoi sostenitori, la Cina è guidata lungo la corrente della storia dalle scelte lungimiranti dei suoi capi. Ma le correnti agitate della lotta di classe renderanno evidente che questo apparente successo ha più a che fare con il ristagno del periodo post-sovietico che con le capacità di guida del Pcc.
Con l’apparente scomparsa della minaccia del “comunismo globale” e con la raccomandazione di Deng al partito di accogliere il capitale straniero durante il suo “tour del sud” del 1992, gli investimenti imperialisti si riversarono in Cina. Le Zone economiche speciali (Zes) offrivano un ambiente deregolamentato degno delle migliori pratiche neoliberali di libero mercato e un enorme bacino di manodopera a basso costo, la cui sottomissione era garantita dal Pcc, mentre l’economia guidata dallo Stato raccoglieva risorse gigantesche per costruire infrastrutture e fabbriche. Questa combinazione ha prodotto enormi profitti per il capitalismo monopolistico, ma anche un progresso economico e sociale senza pari in Cina. Nei tre anni successivi al 2008, la Cina ha usato più cemento di quanto ne abbiano usato gli Stati Uniti nell’intero Ventesimo secolo. Dal 1978 la crescita del Pil è stata in media del 9 percento all’anno e 800 milioni di persone sono uscite dalla povertà. L’integrazione della Cina nell’economia mondiale ha permesso enormi balzi di produttività, ha aperto un nuovo gigantesco mercato ed è stata il motore della crescita economica e dell’aumento del commercio mondiale. Per l’ordinamento post-sovietico, la Cina rappresenta al contempo il maggior successo e la minaccia più grave.
Per i socialdemocratici e per i moralisti liberali, le politiche di mercato e la repressione del Pcc sono la prova che la Cina è diventata capitalista o addirittura imperialista. Ma a differenza di quanto accaduto in Urss e nell’Europa dell’Est, in Cina il regime stalinista non ha mai rinunciato al controllo dell’economia e dello Stato. Le principali leve economiche sono rimaste collettivizzate. Per molti versi, il regime economico cinese assomiglia attualmente a un modello estremo di quello che Lenin descrisse come “capitalismo di Stato”: l’apertura di alcune aree economiche allo sfruttamento capitalistico sotto la dittatura del proletariato.
Per una valutazione marxista delle politiche di Deng e dei suoi successori, non si possono semplicemente rifiutare per principio le riforme di mercato o qualsiasi compromesso con il capitalismo. Piuttosto, bisogna considerare i termini e gli obiettivi degli accordi e vedere se rafforzano o meno la posizione complessiva della classe operaia. Al Terzo Congresso del Comintern, Lenin spiegò così il suo approccio alle concessioni estere nello Stato operaio sovietico:
Lenin cercò di attirare il capitale straniero in Russia come mezzo per promuovere lo sviluppo economico e guadagnare tempo in attesa che la rivoluzione potesse estendersi a livello internazionale. I compromessi che era disposto a fare non implicavano il minimo accenno al fatto che la lotta contro il capitalismo dovesse essere messa in secondo piano. Al contrario, insisteva:
Deng Xiaoping invece ha proclamato che “non c’è alcuna contraddizione fondamentale tra il socialismo e l’economia di mercato” (1985). Per Deng e i suoi eredi non si è mai trattato di guadagnare tempo per la rivoluzione mondiale, ma della pia illusione di sviluppare la Cina in sostanziale armonia con il mondo capitalista.
Se si considerano i dati economici grezzi, gli ultimi trent’anni hanno prodotto risultati sorprendenti. Ma il quadro è ben diverso se si valuta la forza dello Stato operaio cinese su base di classe. Lo sviluppo della Cina ha i piedi d’argilla: la “coesistenza pacifica” con l’imperialismo mondiale. C’è una contraddizione fondamentale nell’ascesa della Cina. Più si rafforza, più mina la ragione della sua ascesa: la globalizzazione economica sotto l’egemonia degli Stati Uniti. Ma invece di chiamare a raccolta la classe operaia internazionale per l’inevitabile lotta con l’imperialismo statunitense, il Pcc da decenni predica la fiducia nell’”interdipendenza economica”, nel “multilateralismo” e nella “cooperazione a vantaggio di tutti” come mezzi per evitare il conflitto. Queste illusioni pacifiste hanno indebolito la Repubblica popolare cinese (Rpc) disarmando la classe operaia, l’unica forza che può sconfiggere definitivamente l’imperialismo.
La posizione della Cina è ulteriormente minata dalla potente classe capitalista interna che è emersa sul continente e che ha un interesse diretto nella distruzione dello Stato operaio. Lungi dal riconoscere questa minaccia mortale al suo sistema sociale, il Pcc ne ha apertamente incoraggiato la crescita, esaltandone il contributo alla costruzione del “socialismo con caratteristiche cinesi”. Non serve essere un esperto di Marx per capire che una classe il cui potere si basa sullo sfruttamento della classe operaia è un nemico mortale della dittatura del proletariato, un regime basato sul potere statale della classe operaia.
Per Lenin l’unico principio valido per stabilire le concessioni ai capitalisti stranieri era quello di preservare il potere del proletariato e migliorarne le condizioni, anche se significava garantire “profitti del 150 per cento” ai capitalisti. La sua strategia si basava integralmente sul potenziale rivoluzionario del proletariato sia in Russia che all’estero. Questa prospettiva non ha nulla a che vedere con quella della burocrazia del Pcc, che teme la rivoluzione come la peste e cerca soprattutto la stabilità politica per mantenere i propri privilegi burocratici. Lungi dal portare alla “prosperità comune”, le politiche del Pcc hanno cercato di tenere sotto controllo le aspirazioni della classe operaia e di mantenere le condizioni di lavoro peggiori possibili per competere con i lavoratori all’estero e assicurarsi gli investimenti di capitale. Chi ne ha tratto profitto non è il “popolo lavoratore”, ma una piccola cricca di burocrati e capitalisti. La verità è che il Pcc ha cooperato con i capitalisti in patria e all’estero contro i lavoratori in Cina e a livello internazionale. Questo tradimento, compiuto in nome del “socialismo”, infanga la Rpc agli occhi della classe operaia internazionale e mina la difesa della Rivoluzione del 1949.
IV. Combattere il liberalismo a suon di liberalismo
Il forte consenso politico in tutto l’Occidente dopo il 1991 non significava che non ci fossero voci dissenzienti da destra e da sinistra. Tuttavia, in generale questo dissenso non ha messo in discussione le premesse ideologiche essenziali dell’ordine mondiale liberale e ancor meno la sua base materiale: il dominio del capitale finanziario statunitense. I vari movimenti emersi a sinistra hanno criticato lo status quo sulla base della morale liberale, cioè senza uscire dai presupposti ideologici dello status quo. Sia che si opponessero al libero scambio, alla guerra, al razzismo o all’austerità, i movimenti di sinistra puntavano tutti a tenere a freno gli eccessi dell’imperialismo, mantenendo intatto il sistema nel suo complesso ma eliminando gli aspetti più brutali. Ai suoi tempi Lenin, parlando di simili critiche dell’imperialismo spiegò che erano soltanto delle “pie illusioni”, dato che non riconoscevano “il legame indissolubile dell’imperialismo con i trust e per conseguenza anche con le basi del capitalismo” (Imperialismo). E così i vari movimenti di sinistra del periodo post-sovietico hanno lanciato anatemi, raccolto firme, manifestato, cantato e mangiato tofu, ma sono stati completamente incapaci di costruire una vera opposizione all’imperialismo liberale.
Il movimento antiglobalizzazione
Il movimento antiglobalizzazione ha raggiunto il suo apice con le proteste contro l’Omc a Seattle nel 1999. Movimenti simili si sono poi susseguiti in tutto il mondo per confluire nei forum sociali mondiali. Il movimento era un mix eclettico di sindacati, ambientalisti, Ong, gruppi indigeni, anarchici e socialisti. Era un miscuglio privo di coerenza e di obiettivi comuni, una coalizione tra i perdenti della globalizzazione che cercavano di fermare il treno del capitalismo e l’ala sinistra del liberalismo, che cercava di renderne meno brutale il passaggio.
Nei sindacati, l’opposizione alla globalizzazione è stata dominata dalla resistenza della classe operaia alla perdita di posti di lavoro a causa delle delocalizzazioni. Se incanalata correttamente, questa legittima rabbia operaia avrebbe potuto cambiare l’equilibrio delle forze di classe a livello internazionale e porre fine all’offensiva del capitale finanziario. Ciò avrebbe richiesto forti lotte difensive che si scontrassero direttamente con gli interessi del capitale monopolistico: occupazioni di fabbriche, scioperi, campagne di sindacalizzazione. Ma i capi sindacali hanno fatto il contrario.
Negli Stati Uniti si sono opposti alle delocalizzazioni e al Nafta, ma hanno celebrato attivamente il dominio del capitalismo statunitense sul mondo, che essi stessi avevano contribuito a creare impegnandosi nella “lotta al comunismo”. I sindacati non possono lottare in difesa dei posti di lavoro continuando a sostenere proprio il fattore che determina le delocalizzazioni: il dominio imperialista degli Stati Uniti. Invece è proprio quello che hanno fatto, appoggiando le campagne protezioniste anti-messicane e anti-cinesi o sostenendo Bill Clinton come presidente. In Europa, persino l’opposizione formale al libero scambio è stata molto più blanda e molti sindacati hanno fatto una campagna attiva a favore del Trattato di Maastricht e dell’Ue. Quelli che non l’hanno fatto, come le loro controparti americane, non hanno lottato contro la classe dirigente che stava dietro alla liberalizzazione economica, ma hanno cercato di costituire un blocco tra lavoratori e capitalisti su base nazionale contro gli “interessi stranieri”. In entrambi i casi il risultato è stato una totale devastazione per la classe operaia, con massicce perdite di posti di lavoro e il degrado di intere regioni.
L’altra parte del movimento antiglobalizzazione era costituita da varie Ong, anarchici, ecologisti e gruppi socialisti. Per loro stessa ammissione, la maggior parte di questi gruppi non si opponevano alla globalizzazione, ma volevano una globalizzazione “più giusta”, “democratica” ed “ecologica”. Come abbiamo già spiegato, la globalizzazione non può essere equa sotto il giogo dell’imperialismo e l’offensiva neoliberista può essere fermata solo rafforzando la posizione della classe operaia internazionale. Il movimento antiglobalizzazione non ha potuto fare nulla per raggiungere questo obiettivo perché ha fatto suo il trionfalismo liberale le cui conseguenze diceva di voler combattere. Il movimento sosteneva che la lotta di classe era finita e che gli Stati nazionali erano stati soppiantati dalle corporazioni internazionali... quindi ovviamente non organizzava la lotta di classe contro gli Stati imperialisti che sostenevano la globalizzazione.
Poiché il movimento vedeva la globalizzazione come sostanzialmente inevitabile e pensava che la classe operaia nella migliore delle ipotesi fosse irrilevante, non fece nulla per opporsi alla perdita di milioni di posti di lavoro. La sinistra condannò lo sciovinismo protezionista di alcuni burocrati sindacali e dei politici reazionari, ma senza proporre un programma di difesa dell’occupazione e delle condizioni di lavoro. Ciò significava essere un’eco di sinistra dei Bush e dei Clinton, che condannavano il protezionismo e il sovranismo a tutto vantaggio dell’espansione internazionale degli Stati Uniti. La verità di fondo rifiutata dal movimento anti-globalizzazione è che una vera difesa dei posti di lavoro della classe operaia negli Stati Uniti e in Europa non sarebbe contrapposta agli interessi dei lavoratori del “Terzo mondo”, ma ne rafforzerebbe la posizione ponendo un freno all’aumento del saccheggio imperialista. Per essere internazionalista, la classe operaia non deve diventare “liberale” e “illuminata”: deve unirsi per rovesciare l’imperialismo. Qualsiasi lotta contro la borghesia imperialista unirà oggettivamente la classe operaia internazionale e la separerà dalle sue direzioni nazionaliste.
Anche se il movimento anti-globalizzazione è riuscito a provocare alcune rivolte, queste non hanno rappresentato una minaccia per l’imperialismo liberale. Paralizzato da una fondamentale fedeltà allo status quo, il movimento è stato in definitiva solo una nota a piè di pagina nell’offensiva schiacciante del capitale finanziario negli anni Novanta e nei primi anni Duemila. Alla fine, anche l’opposizione formale al Nafta e all’Ue è stata abbandonata praticamente da tutto il movimento sindacale e dalla sinistra. L’impotenza delle forze che si oppongono alla globalizzazione alla fine ha spinto milioni di lavoratori in Occidente verso demagoghi come Trump, Le Pen in Francia e Meloni in Italia.
La sinistra anti-establishment dopo il 2008 negli Stati Uniti e in Europa
La bolla creditizia del 2007 ha segnato l’apice dell’ordine mondiale liberale. La successiva crisi economica ha rappresentato un punto di svolta importante, poiché le dinamiche che contribuivano alla stabilità e alla crescita economica (l’aumento del commercio mondiale, la crescita della produttività, il consenso politico e geopolitico) sono crollate e si sono invertite. La crisi e le sue conseguenze non hanno posto fine all’era post-sovietica, ma hanno accelerato le tendenze che la stavano minando. In gran parte del mondo occidentale, la perdita di milioni di posti di lavoro e gli sfratti, seguiti da un’ondata di austerità, hanno creato un profondo malcontento politico. Per la prima volta dagli anni Novanta, sono emersi importanti movimenti politici che hanno attaccato i pilastri fondamentali del consenso post-sovietico. A destra sono diventati mainstream il protezionismo, l’opposizione al “multilateralismo” e l’aperto sciovinismo; a sinistra, l’opposizione all’austerità, le richieste di nazionalizzazione e, in certi ambienti, l’opposizione alla Nato. Questi movimenti hanno avuto tratti molto diversi tra loro, ma hanno fatto tutti la stessa fine. Mentre la destra populista è uscita rafforzata nonostante una temporanea battuta d’arresto nel 2020, i movimenti anti-establishment di sinistra sono per lo più crollati. Cosa spiega questo fallimento?
La sinistra anti-establishment è stata spinta alla ribalta da decenni di attacchi neoliberali, accentuati dopo il 2008 e, nel caso degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, dall’opposizione agli interventi militari in Afghanistan e Iraq. Pur reagendo contro lo status quo, questi movimenti non hanno rotto in modo decisivo con esso. Ognuno di essi, a suo modo, era legato alla borghesia imperialista responsabile del degrado delle condizioni sociali. I portabandiera di questa tendenza sono stati Corbyn in Gran Bretagna, Sanders negli Stati Uniti, Syriza in Grecia e Podemos in Spagna. A differenza di loro, Mélenchon in Francia non ha ancora fallito visibilmente. Detto questo, il suo movimento contiene tutti gli ingredienti che hanno portato alla scomparsa dei suoi omologhi stranieri.
Sanders è un rappresentante del Partito democratico, uno dei due partiti dell’imperialismo statunitense. I suoi discorsi su “una rivoluzione politica contro i miliardari” non significano nulla data la sua fedeltà a un partito che rappresenta i miliardari. Inoltre, come politico riformista liberale, la principale riforma promessa da Sanders, “Medicare [assicurazione sanitaria] per tutti”, è sempre stata subordinata all’unità con i capitalisti democratici “progressisti” contro quelli repubblicani più reazionari. In nome della “lotta alla destra”, Sanders ha tradito i principi che diceva di difendere. Più Sanders calpestava le aspirazioni del movimento che rappresentava, più faceva carriera nell’establishment del Partito democratico. Coloro che oggi vogliono ricreare questo movimento al di fuori del Partito democratico e senza Sanders non capiscono che è il programma stesso del riformismo liberale a portare alla capitolazione alla classe dominante. Qualsiasi programma che cerchi di conciliare gli interessi della classe operaia con il mantenimento del capitalismo Usa cercherà necessariamente il sostegno di una delle due ali del capitalismo americano. Per rompere il ciclo reazionario della politica statunitense e promuovere realmente i propri interessi, la classe operaia ha bisogno di un proprio partito costruito in totale opposizione sia ai liberali che ai conservatori.
Il movimento di Corbyn era simile a quello di Sanders, ma si differenziava per due aspetti importanti. Il primo è che il Partito laburista, a differenza del Partito democratico, è un partito operaio borghese. La sua base operaia spiega in parte perché Corbyn ha potuto conquistare la direzione del Labour mentre Sanders è stato fermato dall’establishment democratico. L’altra differenza significativa è che Corbyn ha oltrepassato delle linee rosse in politica estera. La sua opposizione alla Nato e all’Ue, le critiche al colpo di Stato appoggiato dalla Nato in Ucraina nel 2014, il sostegno ai palestinesi e la sua opposizione alle armi nucleari erano assolutamente inaccettabili per la classe dominante.
Di fronte alla rabbiosa ostilità dell’establishment britannico e alla continua insurrezione contro di lui all’interno del suo stesso partito, l’alternativa che si poneva a Corbyn era quella di affrontare direttamente la classe dirigente o di capitolare. Ma il programma di Corbyn, fatto di pacifismo e riformismo laburista, cerca di placare la guerra di classe, non di vincerla. Così, in ogni occasione, Corbyn ha cercato di placare la classe dirigente e l’ala destra del suo partito invece di mobilitare la classe operaia e i giovani contro di loro. Corbyn ha capitolato sul rinnovo del Trident [la rete di sottomarini nucleari], sull’autodeterminazione della Scozia, sulla questione israelo-palestinese, sulla Nato e soprattutto sulla Brexit. L’esempio di Corbyn, ancor più di quello di Sanders, è un classico caso di assoluta impotenza del riformismo nel guidare la lotta di classe.
Il caso di Syriza è diverso in quanto è salito al potere in Grecia come risultato dell’opposizione di massa all’austerità imposta dall’Ue. La rapidità della sua ascesa è stata pari solo alla profondità del suo tradimento. Dopo aver organizzato un referendum nel 2015 che ha respinto a stragrande maggioranza il pacchetto di austerità dell’Unione Europea, Syriza ha calpestato palesemente la volontà popolare, accettando le richieste imperialiste di attacchi ancor più duri contro i lavoratori greci. La ragione di questo tradimento risiede nella natura di classe e nel programma stesso di Syriza. L’unica forza in grado di opporsi all’imperialismo in Grecia è la classe operaia organizzata. Ma Syriza non è un partito della classe operaia. Sostiene di poter servire sia i capitalisti greci sia i lavoratori e gli oppressi della Grecia... il tutto mantenendo il Paese nell’Ue. Questo mito si è infranto al primo contatto con la realtà. Mentre la maggior parte della sinistra ha fatto il tifo per Syriza fino al suo tradimento, il Kke è rimasto in disparte, negando che la Grecia sia oppressa dall’imperialismo. Le conseguenze di entrambe le politiche sono state pagate dal popolo greco. Questa debacle dimostra l’urgente necessità di un partito in Grecia che combini la lotta per la liberazione nazionale con la necessità di indipendenza di classe e di potere dei lavoratori.
Il mondo sta entrando in un periodo di crisi acuta. Ma il movimento operaio in Occidente si trova politicamente disorganizzato e demoralizzato, tradito dai movimenti in cui aveva riposto la sua fiducia. Anche se nel breve periodo questo determinerà sicuramente delle vittorie della destra, una nuova rivolta della classe operaia e delle masse popolari porrà ancora una volta la necessità di un’alternativa politica ai rappresentanti dello status quo liberale. Per evitare un nuovo ciclo di sconfitte e di reazione bisogna trarre le lezioni dai fallimenti del passato.
Covid-19, un disastro del liberalismo
Durante la pandemia di Covid-19, la sinistra non ha fatto nemmeno una tiepida opposizione all’establishment liberale. Mentre le borghesie di tutto il mondo rinchiudevano le popolazioni per mesi e mesi, senza muovere un dito per migliorare i sistemi sanitari fatiscenti e le terribili condizioni di vita, la sinistra esultava e chiedeva lockdown sempre più duri. Ogni attacco contro la classe operaia è stato accettato in nome della “scienza”. La comprensione di base che la scienza nella società capitalista non è neutrale, ma viene utilizzata per servire gli interessi della borghesia è stata gettata alle ortiche anche da coloro che si dichiaravano marxisti.
Il risultato parla da sé. Milioni di persone sono morte a causa del virus, milioni hanno perso il lavoro, le famiglie sono state rinchiuse in casa a spese delle donne, dei bambini e della salute mentale. Dato che la scienza è stata usata per giustificare una politica reazionaria dopo l’altra, milioni di persone si sono rivoltate contro la “scienza” e hanno rifiutato i vaccini salvavita. Il sistema sanitario è stato salvato? No, ovunque è molto peggio di prima. I lavoratori sono stati protetti dal virus? No, hanno continuato a lavorare in condizioni pericolose. Gli anziani sono stati protetti? Molti sono morti in case di cura decrepite. Gli altri hanno visto ridursi la qualità e l’aspettativa di vita a causa di anni di isolamento sociale e di mancanza di attività fisica. La crisi delle case di cura e di riposo è più grave che mai.
I liberali e la sinistra sostengono che non c’era alternativa per “salvare vite” se non quella di piegarsi ai governi e alla “scienza”. Invece c’era. La classe operaia doveva prendere in mano la situazione e garantire una risposta corrispondente ai suoi interessi di classe. I sindacati dovevano lottare per ottenere luoghi di lavoro sicuri, opponendosi sia ai lockdown sia a lavorare in trappole mortali. Finché i padroni e i governi controlleranno la sicurezza sul lavoro al posto dei sindacati, i lavoratori moriranno di morti evitabili. I sindacati della sanità e della scuola devono lottare per ottenere condizioni migliori, non sacrificarsi per vantaggi illusori nel futuro. I sacrifici non hanno salvato i servizi pubblici, ma hanno permesso alla classe dirigente di tagliarli ancora di più. Solo lottando contro la classe dominante e i suoi lockdown si potevano affrontare i mali sociali che stanno alla base della crisi, che si tratti di assistenza sanitaria, alloggi, condizioni di lavoro, trasporti pubblici o assistenza agli anziani.
La totale sottomissione del movimento operaio ai lockdown ha fatto sì che l’opposizione alle conseguenze disastrose della pandemia è stata dominata dalle forze di destra e dai complottisti. Molte delle persone che partecipavano alle manifestazioni di massa contro i lockdown o contro le vaccinazioni obbligatorie lo facevano per la legittima rabbia nei confronti delle conseguenze sociali delle politiche capitalistiche durante la pandemia. Invece di dare voce a questi sentimenti e indirizzarli verso la lotta per migliorare le condizioni della classe operaia, gran parte della sinistra li ha condannati e ha applaudito alla loro repressione da parte dello Stato.
Le basi del totale tradimento della sinistra e del movimento operaio nella pandemia sono state gettate durante l’intero periodo post-sovietico. Quando è scoppiata questa crisi di proporzioni globali e la borghesia ha avuto più che mai bisogno di unità nazionale, il movimento operaio si è messo sull’attenti e ha lealmente schierato la classe operaia a sostegno della “scienza” e del “comune sacrificio”. I governi e la maggior parte della sinistra adesso cercano di far sparire la pandemia sotto il tappeto, ma non se la caveranno così facilmente. Le conseguenze di questo disastro hanno lasciato un’impronta profonda nella classe operaia e nei giovani, spingendoli a cercare risposte e alternative.
V. La decadenza dell’ordine liberale
L’arroganza si trasforma in isteria
Dagli anni Ottanta ai primi anni Duemila, la dinamica della politica mondiale è stata orientata verso un relativo rafforzamento del potere degli Stati Uniti. Più gli Stati Uniti miglioravano la propria posizione economica, militare e politica, più cresceva la forza centripeta che sosteneva l’ordine mondiale liberale. Questa dinamica autorinforzante ha raggiunto il suo apice all’indomani della controrivoluzione in Unione Sovietica. Essa ha permesso una diffusa liberalizzazione politica ed economica con un intervento diretto relativamente limitato da parte degli Stati Uniti. All’epoca, le correnti storiche sembravano sospingere gli interessi del capitalismo statunitense.
Ma inpolitica, come in fisica, ad ogni azione corrisponde una reazione. Inevitabilmente, le conseguenze stesse dell’egemonia statunitense hanno generato delle forze contrarie. Gli interventi militari sempre più sconsiderati degli Stati Uniti si sono rivelati un disastro geopolitico, che ha sprecato risorse e ha rafforzato l’opposizione alla politica estera americana in patria e all’estero. La deregolamentazione finanziaria e la deindustrializzazione hanno eroso la potenza economica degli Stati Uniti e rafforzato i loro concorrenti, rendendo al contempo l’intera economia mondiale molto più instabile e soggetta a crisi. Più la classe dirigente statunitense usava il liberalismo come maschera per promuovere i propri interessi reazionari, più alimentava la resistenza al liberalismo. Lentamente, ma inesorabilmente, sono aumentati i segnali che le dinamiche favorevoli all’ordine mondiale liberale si stavano indebolendo e le forze che gli si opponevano si stavano rafforzando. La crisi finanziaria del 2008, il colpo di Stato e il conflitto in Ucraina nel 2014, l’elezione di Donald Trump e la Brexit nel 2016 sono stati segnali importanti di questa tendenza.
Quando gliStati Uniti hanno sentito il loro potere indebolirsi, la loro arroganza si è trasformata in isteria. Si sforzano sempre di più di rafforzare il proprio potere, scontrandosi con la Cina e con la Russia, spremendo i propri alleati, imponendo sanzioni a un numero crescente di Paesi. Ma questi sforzi hanno costi crescenti e rendimenti decrescenti. Lungi dall’arrestare il loro declino, la risposta degli Stati Uniti finora non ha fatto altro che rafforzarlo. Oggi, dopo la pandemia e la guerra in Ucraina, è chiaro che la dinamica della politica mondiale si è invertita. Andiamo verso un’accelerazione della disintegrazione dell’ordine mondiale liberale. La Nato e la Russia sono impegnate in una guerra per procura. Le relazioni tra Stati Uniti e Cina sono di ostilità permanente. Il nazionalismo populista è in aumento nel mondo non imperialista, con espressioni sia di sinistra (Messico) che di destra (India, Turchia). La politica in Occidente si sta polarizzando sempre più tra coloro che cercano di rafforzare il dominio imperialista rompendo con il liberalismo tradizionale (Trump, AfD, Le Pen, Meloni) e coloro che cercano di rafforzarlo raddoppiando la crociata liberale (Biden, Trudeau, Verdi tedeschi).
La crescente instabilità del mondo non è un mistero per nessuno. La controversia riguarda la natura del conflitto. Per i liberali, si tratta di una competizione tra democrazia e autocrazia. Per i libertari e i socialdemocratici, è il libero mercato contro l’intervento dello Stato. Per gli stalinisti e i terzomondisti, si tratta di un conflitto tra egemonia e multipolarismo. Sbagliano tutti La risposta è nelle semplici ma penetranti parole del Manifesto comunista: “La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi”. Ed infatti l’odierno disfacimento dell’ordine mondiale liberale segue le leggi della lotta di classe. Oggi il conflitto fondamentale che sta plasmando il mondo non è tra il Pcc e i capitalisti statunitensi, tra Trump e Biden, tra Putin e la Nato, o tra Lopez Obrador (AMLO) in Messico e l’imperialismo yankee: la contraddizione fondamentale che scuote il mondo è quella tra la decadenza sociale provocata dal capitalismo nella sua fase imperialista e gli interessi del proletariato mondiale. Chi non è guidato da questa comprensione non sarà in grado di orientarsi nelle turbolenze che ci attendono, tanto meno di far progredire la lotta per il progresso umano.
L’economia globale: un gigantesco schema a piramide
Come detto, l’egemonia statunitense ha permesso un miglioramento temporaneo del potenziale di crescita dell’imperialismo. È stato questo miglioramento della congiuntura economica a consentire la prolungata stabilità del mondo capitalista negli ultimi trent’anni. Oggi, tuttavia, non solo le possibilità di espansione si sono esaurite, ma le condizioni che hanno permesso la precedente espansione si stanno invertendo. La conseguenza sarà una significativa distruzione delle forze produttive, con tutta l’instabilità che ne consegue. Come scrisse Trotsky ne La Terza Internazionale dopo Lenin, “gli Stati, come le classi, lottano con maggiore accanimento per strapparsi una posizione magra e in via di diminuzione che non quando sono provvisti abbondantemente”. Questo fattore è alla base dell’attuale situazione mondiale e continuerà a esserlo, a meno che non si verifichi un cambiamento importante nella congiuntura.
Dei cicli di otto-dieci anni di espansione e di crisi rappresentano le normali fluttuazioni dell’economia capitalista. Alla speculazione selvaggia e alla sovrapproduzione seguono i crolli e il panico. Il periodo post-sovietico non è stato diverso. Ma quando le possibilità di crescita reale sono diminuite, la speculazione e il credito sono diventati il modo principale con cui gli Stati Uniti hanno cercato di tenere in piedi l’intero ordine. Le conseguenze della “Grande recessione” del 2008 lo hanno dimostrato chiaramente. Di fronte a una possibile depressione, gli Stati Uniti hanno coordinato un’espansione monetaria e creditizia senza precedenti. Questo ha determinato una crescita reale anemica, ma una crescita gigantesca dei prezzi degli asset. Anche secondo la maggior parte degli economisti borghesi è ovvio che questo significava solo creare le condizioni di un crollo ancora peggiore in futuro. Per più di dieci anni, ad ogni segnale di rallentamento della crescita il copione è stato lo stesso: rimandare il problema allargando il credito. Durante la pandemia di Covid-19, questa strategia è stata spinta ancora una volta ai massimi storici. Per risolvere le conseguenze della chiusura di enormi settori dell’economia, i capitalisti hanno semplicemente stampato denaro. Ma ormai era troppo e alla fine le possibilità di questo approccio si sono esaurite con l’inevitabile “ritorno dell’inflazione”.
Il drastico aumento dei tassi di interesse negli Stati Uniti sta risucchiando gigantesche quantità di liquidità dal sistema economico mondiale. Secondo il celebre detto di Warren Buffet, “Con l’alta marea galleggiano tutte le barche... Solo quando scende si scopre chi nuotava nudo”. Dopo quindici anni di denaro facile, giganteschi segmenti dell’economia sono destinati a “nuotare nudi”. Quando il denaro smetterà di girare i risultati sono destinati ad essere catastrofici. Essendo al vertice della catena alimentare capitalista e controllando le condizioni del credito internazionale, gli Stati Uniti, pur essendo l’epicentro della crisi, saranno in grado di usare la loro posizione dominante per far pagare le conseguenze al resto del mondo. Ciò sarà particolarmente devastante per i Paesi in via di sviluppo, molti dei quali sono già in profonda crisi, come lo Sri Lanka, il Pakistan e il Libano. Ma le conseguenze saranno globali e porteranno necessariamente ulteriori colpi all’ordine mondiale, anche da parte di potenze che oggi gli Stati Uniti considerano alleate.
Una parte significativa dell’establishment economico mente apertamente o chiude gli occhi davanti alle prospettive dell’economia mondiale. Alcune parti della sinistra socialdemocratica, hanno sostenuto che gli alti livelli di debito pubblico non destano grandi preoccupazioni e che i lavoratori trarrebbero maggiori benefici da bassi tassi di interesse e da un maggiore indebitamento, piuttosto che dall’attuale politica di tassi di interesse più elevati. Questa tesi riecheggia gli elementi della borghesia che vorrebbero continuare a rimandare il problema, sperando di superare le prossime elezioni. La verità è che tutte le alternative politiche (un forte indebitamento, l’inflazione elevata o la deflazione) saranno utilizzate per attaccare il tenore di vita della classe operaia. Il problema di fondo è il gigantesco squilibrio tra il capitale fittizio e le reali capacità produttive dell’economia mondiale. Nessun magheggio finanziario può risolvere questo problema. L’unica via d’uscita è che la classe operaia prenda le redini politiche ed economiche e riorganizzi l’economia in modo razionale.
Per gli economisti di destra, la soluzione è lasciare che il libero mercato faccia il suo corso: accettare che ci sarà una crisi devastante, lasciare che i deboli muoiano e i forti emergano rafforzati. Ma i tempi del capitalismo di libero mercato sono ormai lontani. Oggi l’economia mondiale è dominata da un piccolo numero di giganteschi monopoli in competizione con quelli di altri Paesi. Nessuno Stato è disposto a lasciar crollare i propri monopoli. Il fallimento di Ford e GM non rilancerebbe la libera impresa americana, ma rafforzerebbe Toyota e Volkswagen. Il capitalismo sfrenato non porta a mercati liberi ma a monopoli. Da un lato, questo riflette la tendenza alla produzione pianificata centralizzata su scala globale. Ma dall’altro, nell’imperialismo i monopoli ostacolano la crescita delle forze produttive, portando alla decadenza e al parassitismo.
Per i socialdemocratici come l’economista Michael Hudson, la panacea è l’”economia mista”, il capitalismo con l’intervento dello Stato e la regolamentazione. Se negli ultimi decenni questa era considerata un’eresia nei circoli economici e governativi, ora la pianificazione sta tornando di moda. Questo non per illuminismo, ma perché il capitalismo nazionale ha bisogno di essere sostenuto per evitare la bancarotta e competere con la Cina. La classe operaia può strappare concessioni ai capitalisti attraverso la lotta di classe, ma non è possibile regolare le contraddizioni dell’imperialismo. L’irrazionalità e il parassitismo del sistema sono radicati nelle dinamiche stesse dell’accumulazione capitalistica. Il governo non è un contrappeso alla piccola cricca di finanzieri capitalisti, ma il suo comitato esecutivo. Quando interferisce nelle questioni economiche, in fondo è perché ritiene che sia vantaggioso per la classe dominante imperialista.
La guerra tra Ucraina e Russia: una sfida militare all’egemonia Usa
L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia è di gran lunga la più importante sfida all’egemonia statunitense dal crollo dell’Unione Sovietica. Il fatto che una grande potenza non solo abbia avuto il coraggio di sfidare così apertamente gli Stati Uniti, ma che finora l’abbia fatta franca, mostra quanto sia cambiata la marea. Questa guerra è diversa da tutte le altre degli ultimi decenni. Non è una guerra anti-insurrezionale di basso livello, ma una guerra industriale ad alta intensità. L’esito del conflitto non solo determinerà il destino dell’Ucraina, ma avrà un grande impatto sull’equilibrio di potere in Europa e a livello internazionale.
I due attori decisivi nella guerra in Ucraina sono la Russia e gli Stati Uniti. La guerra è scoppiata in seguito a decenni di espansione della Nato verso Est, in Paesi che la Russia considera parte della sua sfera di influenza. La Russia considera l’Ucraina di vitale interesse strategico e sarà pronta a inasprire il conflitto fino a quando non garantirà che l’Ucraina resti nella sua orbita o non verrà sconfitta. La posizione americana è più complicata. L’Ucraina ha uno scarso valore strategico per gli Stati Uniti ed è vista come una zona marginale dell’Europa. Per l’establishment liberale occidentale, “difendere l’Ucraina” significa difendere l’ordine mondiale liberale, cioè il diritto degli Stati Uniti di fare ciò che vogliono ovunque vogliano.
La sconfitta dell’Ucraina da parte della Russia sarebbe un colpo umiliante per gli Stati Uniti, manderebbe un segnale di debolezza, avrebbe conseguenze destabilizzanti per l’establishment politico europeo e metterebbe in discussione il futuro della Nato. Data l’alta posta in gioco, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno continuamente intensificato la guerra, fornendo sempre più armi all’Ucraina. La Russia ha risposto con una mobilitazione parziale e sta distruggendo l’esercito ucraino. Sebbene gli Stati Uniti abbiano guidato l’escalation, né loro né i loro alleati si sono ancora impegnati a sconfiggere in modo decisivo l’esercito russo, passando a un’economia di guerra o intervenendo direttamente. Per ora, il conflitto rimane un conflitto regionale per il controllo dell’Ucraina.
In tutto il mondo, i dirigenti della classe operaia hanno spinto il proletariato a sostenere gli interessi della classe dominante. Ma la rivolta contro le conseguenze sociali della guerra cresce di giorno in giorno. Per i marxisti è della massima importanza intervenire in questa crescente contraddizione per costruire una nuova direzione in grado di portare avanti gli interessi della classe operaia in questo conflitto. Il punto di partenza essenziale dev’essere che il responsabile del conflitto in Ucraina è il sistema imperialista, definito oggi come l’ordine liberale dominato dagli Stati Uniti. L’intero proletariato mondiale ha interesse a porre fine al dominio imperialista sul mondo e solo su questa base i lavoratori del mondo possono unirsi, siano essi russi, ucraini, americani, cinesi o indiani. Tuttavia, l’applicazione di questa prospettiva generale assume espressioni concrete diverse da Paese a Paese.
I lavoratori russi devono capire che la vittoria del loro governo non infliggerebbe un colpo fondamentale all’imperialismo. Non favorirebbe l’indipendenza della Russia dall’imperialismo mondiale, ma la renderebbe oppressore dei suoi fratelli e sorelle di classe in Ucraina a vantaggio degli oligarchi russi. Qualunque sia la sconfitta a breve termine che potrebbe infliggere alla politica estera degli Stati Uniti, non vale il prezzo di diventare gli oppressori della nazione ucraina. Un conflitto perpetuo tra ucraini e russi non farebbe che rafforzare le forze dell’imperialismo mondiale nella regione. La Nato e l’Ue subirebbero un colpo molto più duro da un fronte rivoluzionario comune dei lavoratori russi e ucraini contro le rispettive classi dirigenti, alla maniera della grande Rivoluzione d’Ottobre. Rivolgete le armi contro gli oligarchi russi e ucraini! Per l’unità rivoluzionaria contro l’imperialismo statunitense!
I lavoratori ucraini devono capire che gli Stati Uniti, l’Ue e la Nato non sono loro alleati. Stanno usando l’Ucraina come pedina per i loro interessi, che verrà dissanguata e poi gettata. La loro indipendenza nazionale non sarà garantita da un’alleanza con l’imperialismo. Ciò significherebbe asservirsi a Washington e garantirsi l’ostilità permanente della Russia. Allo stesso modo, devono opporsi all’oppressione delle minoranze russe da parte del governo ucraino. La difesa delle minoranze russe da parte degli operai ucraini farebbe un milione di volte di più per indebolire lo sforzo bellico del Cremlino che non i piani di Zelensky. La questione dei confini e dei diritti delle minoranze nazionali potrebbe essere risolta facilmente e democraticamente se non fosse per gli intrighi reazionari degli oligarchi e degli imperialisti. Ogni giorno diventa sempre più chiaro che i lavoratori ucraini vengono mandati al macello sotto il comando di Washington e a beneficio di Wall Street. Devono unirsi alla classe operaia russa per porre fine a questa follia; qualsiasi altra cosa porterà solo a ulteriori massacri e oppressione. Per il diritto all’autodeterminazione di russi, ucraini, ceceni e di ogni altra minoranza nazionale!
In Occidente i lavoratori sono stati bombardati dalla propaganda sulla necessità di sacrificarsi in nome della crociata della Nato per la democrazia in Ucraina. La cosa migliore che il proletariato di Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna e Francia può fare per difendere i propri interessi e quelli dei lavoratori di tutto il mondo è lottare contro i parassiti finanziari e i monopoli dei propri Paesi, che li stanno dissanguando. Per farlo, devono spazzare via la banda reazionaria dei dirigenti sindacali e socialdemocratici che sono al loro servizio. Le loro svendite domestiche in patria, sono inseparabili dalla campagna per installare la “democrazia” all’estero con i carri armati e le bombe della Nato. Questi traditori sarebbero già stati cacciati se non fosse per la palude pacifista e centrista che parla di “pace”, di “lotta sindacale” e persino di “socialismo”, ma che si aggrappa alla coda di questi guerrafondai e servi dichiarati dell’imperialismo. Un movimento contro la guerra vale solo se esclude i conciliatori del social-sciovinismo nel movimento operaio. Via le sanzioni alla Russia! Abbasso l’Ue e la Nato! Per gli Stati Uniti sovietici d’Europa!
I lavoratori in America Latina, Asia e Africa guardano sempre più alla Russia come a una forza contro l’imperialismo. Questa fiducia è mal riposta e non servirà a liberarli dal giogo degli Stati Uniti, dell’Europa occidentale e del Giappone. Putin non è un antimperialista e non sarà un alleato nella lotta per la liberazione nazionale di nessun Paese. È proprio per questo motivo che AMLO, Ramaphosa in Sud Africa, Modi in India e Xi in Cina lo appoggiano o quantomeno non lo osteggiano apertamente. Il sostegno a Putin culla la classe operaia del “Sud globale” nell’illusione di poter migliorare le proprie condizioni di vita e liberarsi dall’imperialismo senza una lotta rivoluzionaria. Al minimo segnale di rivolta delle masse oppresse del mondo, i leader reazionari del “Sud globale” chiederanno aiuto a quegli stessi imperialisti che oggi condannano. La vera forza antimperialista sono i lavoratori dell’Ucraina, della Russia e dell’Occidente. Essi e i lavoratori di tutto il mondo possono unirsi attorno a una comune bandiera internazionalista solo opponendosi a tutte le oppressioni nazionali, sia per mano delle grandi potenze che delle nazioni a loro volta oppresse. Nazionalizzare i beni di proprietà dell’imperialismo! Lavoratori di tutto il mondo, unitevi!
Cina: Via della seta stalinista o strada proletaria
Le dinamiche che hanno permesso alla Cina di crescere e prosperare negli ultimi trent’anni si dissolvono sempre più rapidamente, ma la fede del Pcc nel capitalismo globale e nel libero mercato rimane incrollabile. Parlando al Forum economico mondiale di Davos del 2022, Xi Jinping ha sostenuto che:
Purtroppo per il Pcc, il futuro del “sistema commerciale multilaterale” dipende in primo luogo dalle azioni degli Stati Uniti, che non possono permettere che le tendenze attuali persistano. O costringeranno il resto del mondo a fare concessioni per sostenere la propria posizione dominante o faranno crollare l’intero edificio.
Da oltre un decennio le tensioni tra Stati Uniti e Cina continuano a crescere. Gli Stati Uniti hanno aumentato la pressione quando è diventato più chiaro che la Cina non sta marciando verso una democrazia liberale, ma sta diventando un vero e proprio concorrente economico e militare. L’aumento della pressione spinge il Pcc a rafforzare il controllo interno dell’economia e del dissenso politico (ad esempio ad Hong Kong) e a rafforzare la propria posizione militare. Questo a sua volta porta gli Stati Uniti a stringere ulteriormente la vite. Questa dinamica ha portato le tensioni tra Stati Uniti e Cina a un massimo pluridecennale, minacciando un conflitto militare aperto.
In tal caso, il proletariato internazionale avrebbe il dovere di schierarsi incondizionatamente in difesa della Cina. Gli imperialisti sono ferocemente ostili alla Cina, proprio per il progresso economico e sociale che il nucleo collettivizzato della sua economia ha permesso. È questo che la classe operaia deve difendere. Ma deve farlo con i propri metodi e obiettivi, non con quelli della burocrazia parassitaria del Pcc.
Trotsky spiegava, a proposito dell’Urss, che “la vera difesa dell’Urss consiste nell’indebolire le posizioni dell’imperialismo e nel rafforzare le posizioni del proletariato e dei popoli coloniali del mondo intero” (La rivoluzione tradita, 1936). Questa strategia, del tutto applicabile alla Cina di oggi, non potrebbe essere più diversa da quella perseguita dal Pcc, che cerca innanzitutto di mantenere lo status quo. Per cominciare, cerca di ristabilire le relazioni con gli Stati Uniti appoggiandosi a capitalisti americani come Bill Gates, Elon Musk e Jamie Dimon, rappresentanti della stessa classe che opprime il mondo e cerca di dominare la Cina. Queste manovre possono solo aumentare l’ostilità dei lavoratori americani nei confronti della Cina, alienando il più grande alleato potenziale della Rpc nella lotta contro l’imperialismo statunitense. Per quanto riguarda i popoli oppressi del Sud globale, il Pcc non si batte per la loro liberazione, ma per alleanze illusorie con le élite di questi Paesi. Questi delinquenti che pensano solo ai propri interessi volteranno senz’altro le spalle alla Cina alla prima difficoltà o se gli imperialisti gli offrono una tangente migliore.
Ci sono voci nella burocrazia cinese che adottano un tono più bellicoso e che guardano al rafforzamento dell’Esercito popolare di liberazione (Epl) come il modo più sicuro per difendere la Cina. Non si può che accogliere con favore l’aumento delle capacità tecniche e di combattimento dell’Epl. Ma le questioni militari non possono essere separate dalla politica e anche in questo campo gli interessi conservatori della casta al potere minano la Cina. Un pilastro fondamentale della strategia di difesa dell’Epl è impedire agli Stati Uniti l’accesso alla cosiddetta “prima cerchia di isole” che circonda la Cina. A tal fine cerca di sviluppare capacità di attacco ad ampio raggio e di ottenere il controllo militare di queste isole. Ma in qualsiasi conflitto, il sostegno del proletariato dei Paesi circostanti sarebbe molto più decisivo del possesso di un numero di scogli disabitati.
L’unico modo per cacciare veramente l’imperialismo statunitense e giapponese dal Mar cinese orientale e meridionale è un’alleanza antimperialista di operai e contadini che abbracci l’intera regione. Ma il Pcc, con la sua strategia nazionalista, non ha fatto alcun tentativo di conquistare alla sua causa i lavoratori delle Filippine, del Giappone, del Vietnam e dell’Indonesia. Al contrario, ha fatto il gioco della campagna anti-Rpc degli imperialisti, concentrandosi solo sui vantaggi militari a breve termine e ignorando le sensibilità nazionali e gli antagonismi di classe interni dei Paesi vicini.
Questo è vero specialmente per quanto riguarda Taiwan. I lavoratori taiwanesi hanno subito una brutale oppressione sotto il tallone della classe capitalista. Ma invece di incoraggiarli a lottare nel loro interesse di classe contro gli imperialisti e la borghesia locale, la strategia del Pcc consiste nel convincere la borghesia di Taiwan a sottomettersi volontariamente al suo dominio e ad aderire alla Repubblica popolare cinese. A tal fine, il Partito si impegna a mantenere le relazioni economiche e l’amministrazione politica capitaliste a Taiwan, nell’ambito della politica di “una Cina, due sistemi”. Ai lavoratori, il Pcc non offre la liberazione, ma la continuazione dello sfruttamento capitalista e della repressione staliniana. Non sorprende che questa proposta a perdere non convinca le masse taiwanesi ad appoggiare la riunificazione.
Il piano B del Pcc è l’intervento militare diretto, che anche se riuscisse a riunificare Taiwan avrebbe costi enormi, soprattutto se si scontrasse con l’ostilità della classe operaia locale. Se il Pcc prendesse questa strada, i trotskisti si schiererebbero in difesa dell’Epl contro i capitalisti taiwanesi e gli imperialisti, ma lo farebbero lottando per una strategia rivoluzionaria proletaria. Contro lo schema fallimentare di “un Paese, due sistemi”, i trotskisti lottano per la riunificazione rivoluzionaria, cioè la riunificazione attraverso una rivoluzione sociale contro il capitalismo a Taiwan e una rivoluzione politica contro la burocrazia sul continente. Questa strategia unirebbe i lavoratori cinesi attorno a un comune interesse di classe e nazionale. Non solo minerebbe le basi dell’alleanza anticomunista tra gli Stati Uniti e la borghesia taiwanese, ma trasformerebbe la Cina in un faro per i popoli oppressi di tutto il mondo nella loro lotta contro l’imperialismo.
Per quanto il Pcc continui a proclamare la sua fedeltà sia al socialismo che al capitalismo, ciò non può continuare a lungo. Ci sono forze potenti legate ai capitalisti cinesi e stranieri che vogliono eliminare ogni traccia di controllo statale e aprire nuovamente la Cina al saccheggio imperialista. Questo risultato dev’essere combattuto fino alla morte! Ma ci sono anche correnti all’interno della casta al potere che, sotto la pressione del malcontento della classe operaia, potrebbero spostare il partito molto a sinistra, dando un giro di vite ai capitalisti e rispolverando la retorica antimperialista ed egualitaria del maoismo tradizionale. Ma proprio come le riforme di mercato di Deng, i tentativi di Mao di un’autarchia egualitaria basata su una frenetica mobilitazione di massa non riuscirono a superare la morsa economica dell’imperialismo mondiale sulla Cina. Infatti, i disastri delle politiche di Mao portarono la Rpc sull’orlo del collasso e condussero direttamente al passaggio del Pcc alla “riforma e apertura”.
Le convulsioni e le giravolte del Pcc riflettono solo i diversi mezzi con cui la casta burocratica parassitaria cerca di mantenere la propria posizione privilegiata entro i confini di uno Stato operaio isolato. Contrariamente a quanto sostenuto dal Pcc da Mao a Xi, il socialismo non può essere costruito in un solo Paese, né è possibile una coesistenza pacifica con l’imperialismo. L’unica strada per la classe operaia cinese è quella di unirsi in un partito costruito sui veri principi marxisti-leninisti dell’indipendenza di classe, dell’internazionalismo e della rivoluzione mondiale e spazzare via i burocrati del Pcc che fanno solo i propri interessi. Spodestare i burocrati! Difendere la Cina dall’imperialismo e dalla controrivoluzione!
VI. La lotta per una direzione rivoluzionaria
Mentre il mondo entra in un nuovo periodo storico di crisi, la classe operaia è politicamente disarmata. Ovunque è guidata da burocrati e traditori che hanno portato ad una sconfitta dopo l’altra. Con l’incombere di sfide gigantesche, si pone con la massima urgenza il compito di forgiare delle direzioni della classe operaia che ne facciano veramente gli interessi. Come forgiare queste direzioni? Questa è la domanda centrale cui i rivoluzionari devono rispondere oggi. Gli inevitabili sconvolgimenti sociali e politici dei prossimi anni solleveranno le masse contro i loro capi attuali e renderanno possibile un radicale riallineamento del movimento operaio. Ma queste occasioni andranno sprecate senza quadri rivoluzionari preesistenti che abbiano ripudiato le politiche fallimentari degli ultimi trent’anni e si pongano correttamente i compiti dell’oggi.
La lezione centrale del leninismo
Ne La rivoluzione permanente (1929), Trotsky scrisse di Lenin che “l’essenza della sua vita è stata la lotta per il partito politico indipendente del proletariato”. È proprio questo concetto centrale del leninismo che viene ripudiato da ogni nuova ondata di revisionismo. Pur assumendo forme diverse a seconda delle spinte dominanti dell’epoca, il revisionismo consiste sempre, in fondo, nella subordinazione del proletariato agli interessi di classi estranee.
La concezione di Lenin del partito d’avanguardia assunse la sua forma matura dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale, quando i partiti della Seconda Internazionale, dopo aver giurato di opporsi alla guerra, si schierarono in prevalenza a sostegno del patriottismo e dei propri governi. Nei suoi scritti durante la guerra, Lenin mostrò come questo storico tradimento non fosse nato dal nulla, ma fosse stato preparato e radicato nel precedente periodo di ascesa imperialista. Lo sfruttamento di milioni e milioni di persone da parte di poche grandi potenze generava superprofitti che venivano utilizzati per cooptare gli strati superiori della classe operaia. Nelle sue abitudini, ideologie e obiettivi, questo strato si allinea alla borghesia contro gli interessi della classe operaia. La capitolazione di gran parte della socialdemocrazia dimostrò che la tendenza filocapitalista del movimento operaio non solo era diventata dominante, ma aveva paralizzato o cooptato la maggior parte di quella che era stata l’ala rivoluzionaria dell’Internazionale.
Da questa esperienza Lenin trasse la conclusione che l’unità con gli elementi filocapitalisti del movimento operaio significava subordinazione politica alla classe capitalista stessa e tradiva necessariamente la lotta per il socialismo. Lenin concentrava il fuoco contro i centristi del movimento operaio, che non avevano apertamente rifiutato i principi del socialismo, ma cercavano comunque di mantenere l’unità a tutti i costi con gli aperti traditori della classe operaia. Lenin insistette sul fatto che i centristi rappresentavano il principale ostacolo alla costruzione di un partito capace di guidare le masse sulla strada della rivoluzione. Questa lezione fu decisiva per il successo della Rivoluzione d’Ottobre in Russia, ma l’incapacità di assimilarla in tempo in Germania portò alla sconfitta dell’insurrezione spartachista del 1919. Dalle ceneri della guerra e della rivoluzione, la Terza Internazionale fu fondata sul principio che qualsiasi partito che pretendesse di lottare per la rivoluzione doveva separarsi politicamente e organizzativamente dalle ali filocapitaliste e centriste del movimento operaio.
All’ondata rivoluzionaria del dopoguerra seguì un periodo di stabilizzazione capitalistica che lasciò l’Unione Sovietica isolata sulla scena mondiale. È in questo contesto che emerse lo stalinismo, che rifiutava la componente essenziale del leninismo: l’indipendenza politica della classe operaia. Invece di fare affidamento sull’estensione della rivoluzione da parte della classe operaia internazionale per difendere l’Urss, Stalin si affidò sempre più ad altre forze di classe. Che si trattasse dei kulaki, del Kuomintang in Cina, della burocrazia sindacale britannica o degli stessi imperialisti, Stalin strinse accordi che sacrificavano gli interessi a lungo termine della classe operaia a favore di presunti vantaggi a breve termine. Invece di rafforzare l’Unione Sovietica, questo portò a un sanguinoso disastro dopo l’altro, minando la posizione generale del proletariato internazionale.
La lotta di Trotsky per un’opposizione di sinistra e per una nuova Quarta Internazionale era una continuazione del leninismo, proprio in quanto lottava per costruire un partito d’avanguardia internazionale contro le tendenze socialdemocratiche e staliniste del movimento operaio. Lo sterminio fisico dei suoi quadri, tra cui lo stesso Trotsky, portò al disorientamento politico e alla sconfitta nelle occasioni rivoluzionarie che seguirono la carneficina della Seconda guerra mondiale. La conseguenza fu il rafforzamento dello stalinismo e dell’imperialismo mondiale. Sono state queste sconfitte storiche e l’incapacità, da allora, di riforgiare la Quarta Internazionale che hanno portato a ulteriori catastrofiche battute d’arresto, fino alla distruzione della stessa Unione Sovietica.
Il periodo post-sovietico: i “marxisti” si liquidano nel liberalismo
All’epoca della controrivoluzione in Unione Sovietica, le forze che rivendicavano il manto del trotskismo restarono in gran parte a guardare o tifarono attivamente per la distruzione delle conquiste rimanenti della Rivoluzione d’Ottobre. La Lci fu la sola a combattere per il programma di Trotsky di difesa dell’Unione Sovietica e di rivoluzione politica contro la burocrazia stalinista. Nonostante le sue dimensioni ridotte e le sue debolezze politiche, la Lci rimase al suo posto di fronte alla prova decisiva dell’epoca. Ma la sua debolezza e il suo isolamento la dicono lunga sullo stato miserevole della sinistra rivoluzionaria all’alba del nuovo periodo storico.
Le conseguenze del crollo dell’Unione Sovietica furono devastanti per tutti coloro che si dichiaravano marxisti. Il rapido spostamento a destra del mondo, non verso il bonapartismo o il fascismo, ma verso il liberalismo, ha creato un’enorme pressione verso il liquidazionismo organizzativo e politico. Data la svolta nella situazione mondiale, il compito era quello di ricostruire lentamente e pazientemente un’avanguardia operaia rivoluzionaria, basata sulle lezioni delle recenti sconfitte proletarie e in opposizione politica al liberalismo. Pur essendo capace di spiegare il crollo sovietico, anche la Lci ha rifiutato, come il resto della sinistra “marxista”, di costruire un’alternativa rivoluzionaria al liberalismo.
Adattandosi al liberalismo e non lottando per tracciare una strada operaia indipendente, la sinistra “marxista” si è trovata priva di bussola di fronte alla stabilità e alla relativa prosperità del nuovo periodo. Per giustificare la propria esistenza, è ricorsa all’allarmismo e ad evidenziare specifiche atrocità o politiche reazionarie per “dimostrare” che l’imperialismo manteneva il suo carattere reazionario. In questo modo non ha fatto altro che allinearsi al liberalismo dominante, che non aveva alcun problema con le critiche volte a porre freno a quelli che considerava degli “eccessi”, come la guerra o il razzismo, nel quadro dello sfruttamento “pacifico” del mondo attraverso l’espansione del capitale finanziario.
Le guerre, l’austerità e le oppressioni nazionali e razziali del periodo post-sovietico sono state ovviamente motivo di rivolta per i lavoratori e i giovani. Ma affinché questa rivolta assumesse un contenuto rivoluzionario, bisognava mostrare come la direzione liberale che dominava queste lotte fosse un ostacolo al loro avanzamento. Bisognava inasprire le contraddizioni tra il legittimo sentimento di rivolta e la fedeltà dei liberali al sistema che genera questi flagelli. Il compito era quello di scindere questi movimenti dalle loro direzioni liberali. Ma le cosiddette organizzazioni marxiste non hanno nemmeno capito che era questo il compito del momento. Invece, i “rivoluzionari” si sono accodati a ogni nuova onda di opposizione liberale allo status quo, dando una leggera riverniciata marxista a dei movimenti borghesi.
Le organizzazioni “trotskiste” più di destra hanno rinunciato alla maggior parte delle pretese marxiste, facendo da ala sinistra del neoliberismo, che si trattasse dei Verdi, del Partito democratico statunitense, del Partito laburista britannico o del Pt brasiliano. In Francia i sostenitori di Mandel (che sostengono di essere la Quarta Internazionale) hanno liquidato la loro Ligue communiste révolutionnaire, sostituendola con l’amorfo Nouveau Parti anticapitaliste (Npa), il cui obiettivo dichiarato non è più la rivoluzione della classe operaia, ma solo la creazione di “un’alternativa strategica al blando social-liberalismo” (Daniel Bensaïd). Altri si sono rifugiati nel peggior settarismo. I seguaci di North (noti grazie al World Socialist Website) hanno proclamato che, nell’epoca della globalizzazione, i sindacati sono “del tutto incapaci di sfidare seriamente le corporazioni organizzate a livello internazionale” e sono diventati completamente reazionari. Nonostante la sua retorica radicale, questa posizione antisindacale lascia del tutto incontrastata la direzione liberale dei sindacati.
Per quanto riguarda i gruppi più centristi, come la Lci e il Gruppo internazionalista, hanno continuato a proclamare la necessità di una direzione rivoluzionaria e di “rompere con il riformismo” in generale, ma astraendo totalmente dalla necessità di scindere la sinistra dal liberalismo, il principale compito politico per poter forgiare un partito rivoluzionario nella nuova epoca. Per questo le polemiche della Lci e del Gi contro il resto della sinistra (e tra di loro) si basavano su principi assoluti e su di un gergo astratto, non sullo sforzo di guidare la lotta di classe lungo linee rivoluzionarie.
Il risultato di trent’anni di disorientamento e capitolazione al liberalismo parla da sé. Oggi, all’inizio di una nuova epoca, le organizzazioni che dicono di volere la rivoluzione sono frammentate, deboli e sclerotiche (in senso letterale e metaforico), con un’influenza quasi nulla sul corso della lotta operaia. Sono congelate nelle forme in cui hanno operato per decenni senza successo.
La lotta per la Quarta Internazionale oggi
La lotta per la rivoluzione oggi deve fondarsi su una corretta comprensione delle caratteristiche chiave dell’epoca. L’imperialismo statunitense rimane la potenza dominante e l’ordine mondiale che ha costruito continua a definire la politica globale. Esso è messo in discussione non dall’ascesa aggressiva di potenze imperialiste rivali, ma dalla relativa perdita di peso economico e militare di tutti i Paesi imperialisti a favore della Cina (uno Stato operaio deformato) e di potenze regionali che hanno un certo grado di autonomia, ma che restano dipendenti e oppresse dall’imperialismo mondiale. Le dinamiche attuali puntano ad una maggiore instabilità economica e politica in tutto il mondo e a conflitti regionali (Ucraina, Taiwan, ecc.) con implicazioni globali potenzialmente catastrofiche. La pressione sull’ordine mondiale sta rapidamente aumentando, così come la pressione interna a ciascun Paese.
Il modo più chiaro per l’imperialismo statunitense di riprendere l’iniziativa è quello di infliggere un colpo mortale alla Cina. La burocrazia del Pcc ha favorito enormi contraddizioni all’interno della Cina, bilanciandosi tra l’imperialismo mondiale, una classe capitalista in crescita e il proletariato più potente del mondo. Il declino dell’equilibrio post-sovietico acuirà queste contraddizioni. La tenuta del Pcc non è così solida come appare all’esterno, soprattutto di fronte alle agitazioni interne (come si è visto nelle piccole ma importanti proteste contro i brutali lockdown imposti dal Pcc). La classe operaia non rimarrà passiva mentre le sue condizioni economiche ristagnano e iniziano a peggiorare. Né i capitalisti cinesi accetteranno passivamente di essere schiacciati dalla burocrazia. Prima o poi, o la Cina cadrà sotto i colpi della controrivoluzione, come l’Urss, o il proletariato si solleverà, spazzerà via la burocrazia e instaurerà la democrazia proletaria con una rivoluzione politica. E’ impossibile prevedere quando. La resa dei conti sarà sicuramente preceduta da violenti zig-zag della burocrazia che reprimerà sia i controrivoluzionari sia il malcontento della classe operaia. Il compito dei rivoluzionari in Cina è quello di difendere le conquiste della Rivoluzione del 1949 contro la controrivoluzione e l’aggressione imperialista, mostrando al contempo come la burocrazia metta a repentaglio ad ogni passo queste conquiste, tradendo la lotta per la rivoluzione internazionale.
La lotta degli Stati Uniti e dei loro alleati imperialisti per mantenere il controllo dell’ordine mondiale comporterà costi sociali domestici sempre maggiori per le loro popolazioni. Il tessuto sociale delle potenze imperialiste sta già marcendo dall’interno. L’equilibrio mantenuto dal credito a basso costo, dai profitti monopolistici e dalle bolle speculative non è più sostenibile e il tenore di vita sta crollando. In molti Paesi occidentali si sono visti i segnali di un crescente malcontento nella classe operaia. L’esplosione più importante è avvenuta in Francia, ma anche Paesi come gli Usa e la Gran Bretagna hanno visto un aumento delle lotte sindacali.
Anche se le prime ondate di queste lotte vengono sconfitte, la pressione continuerà a crescere alla base dei sindacati. Diventerà sempre più chiaro che nessuno dei problemi che stanno di fronte alla classe operaia può essere risolto con dei palliativi. Questo porrà sempre più chiaramente la necessità di una direzione sindacale in grado di guidare la classe operaia sulla strada della lotta rivoluzionaria. Il principale ostacolo che impedisce questo sviluppo è rappresentato dai cosiddetti “rivoluzionari” che sostengono dirigenti sindacali filocapitalisti leggermente più di sinistra, invece di costruire un’opposizione agli attuali dirigenti sulla base di un programma rivoluzionario. Solo lottando contro questo centrismo sarà possibile liberare i sindacati dalle loro attuali direzioni filocapitaliste.
Con l’accumularsi delle minacce, il liberalismo diventa sempre più rabbioso e isterico. Ciò riflette il tentativo disperato della piccola borghesia liberale di aggrapparsi allo status quo. Ma riflette anche la legittima paura degli oppressi di fronte alla crescita della destra reazionaria. I rivoluzionari in Occidente devono capire che per combatterla bisogna rompere con il liberalismo che incatena i movimenti in difesa degli immigrati, delle minoranze razziali, delle donne e di altre minoranze oppresse per motivi sessuali. Non basta limitarsi a criticare dal punto di vista marxista alcune parti isolate dei programmi di questi movimenti, come la riforma della polizia o gli appelli allo Stato. Solo mostrando nella pratica come il liberalismo sia un ostacolo diretto all’avanzamento delle lotte degli oppressi, si potrà spezzare la sua presa sulle masse. Questo non può essere fatto in disparte, ma solo dall’interno della lotta, fornendo una risposta di classe a ogni manifestazione della tirannia capitalista.
Gli sconvolgimenti dell’ordine mondiale colpiranno più duramente i Paesi che stanno alla base della piramide. La prospettiva di una vita migliore, che sembrava possibile fino a poco tempo fa, si sta chiudendo per centinaia di milioni di persone. I nuovi strati della classe operaia in Asia, Africa e America Latina rappresentano il pericolo maggiore per il capitalismo. Le masse del Sud globale sono uscite sempre più dall’isolamento dei villaggi e sono urbanizzate, alfabetizzate e connesse al mondo. Il loro ruolo crescente nella produzione mondiale conferisce loro un potere enorme, eppure la loro unica prospettiva è un ulteriore immiserimento. È questa ondata di diseredati che sta spingendo alla ribalta le forze populiste. Le deboli classi capitalistiche di questi Paesi devono trovare un equilibrio tra la pressione dal basso, che minaccia di spazzarle via, e quella dei padroni imperialisti che controllano i flussi di capitale internazionale. La demagogia di sinistra e l’oscurantismo religioso si sono finora dimostrati efficaci nel tenere sotto controllo il malcontento sociale. Ma quando non funzionano, è pronta la dittatura militare.
Nei paesi oppressi dall’imperialismo, la lotta per l’emancipazione nazionale dal giogo delle grandi potenze e la risoluzione di altri compiti democratici fondamentali svolgono un ruolo decisivo. Con l’intensificarsi di queste lotte, si dimostrerà a ogni passo che le borghesie nazionali svolgono un ruolo infido, sacrificando la liberazione nazionale e l’emancipazione della classe operaia sull’altare della proprietà privata. I rivoluzionari devono entrare nella mischia e dimostrare a ogni passo che solo la classe operaia, alla testa di tutti gli oppressi, può portare alla liberazione.
In nessun caso la lotta contro governi autoritari o oscurantisti può giustificare la minima concessione o alleanza con alternative liberal-modernizzanti filo-imperialiste. Ciò non farebbe altro che rafforzare la reazione e incatenare all’imperialismo le forze per la riforma democratica. Nei Paesi in cui la borghesia si dipinge con i colori della sinistra “antimperialista”, è necessario smascherarne l’ipocrisia portando avanti la lotta contro l’imperialismo. Non c’è niente di più sterile e controproducente che restare in disparte a predicare la rivoluzione. È obbligatorio difendere qualsiasi riforma che colpisca gli interessi imperialisti. Ma questo non deve in nessun caso giustificare il sostegno al populismo borghese. La classe operaia deve difendere la propria indipendenza a tutti i costi, chiarendo sempre che combatte l’imperialismo con i propri metodi e obiettivi, quelli della lotta operaia rivoluzionaria.
Le forze che lottano per la rivoluzione internazionale oggi sono minuscole. È essenziale un raggruppamento di forze su un programma e una prospettiva chiari. Offriamo il presente documento come contributo al processo di ricostruzione e raggruppamento delle forze per la Quarta Internazionale. La Lci è stata impantanata in controversie interne e disorientamento politico, ma siamo convinti che il processo di consolidamento che abbiamo avviato le conferirà un ruolo cruciale nell’imminente periodo di agitazione e di conflitto sociale. Come spiegava Trotsky:
Avanti verso una Quarta Internazionale riforgiata, partito mondiale della rivoluzione socialista!