https://iclfi.org/pubs/spo/2025-morsa
Il seguente memorandum, scritto da Vincent David, è stato adottato dal plenum dell’aprile 2025 del Comitato esecutivo internazionale della Lega comunista internazionale.
Introduzione
La rielezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti ha scatenato un terremoto politico e i suoi primi mesi di mandato hanno confermato che ci troviamo in un periodo di profondi cambiamenti globali. Ma la rapidità degli eventi è pari solo alla confusione che attanaglia la sinistra e i commentatori politici in generale. Se da un lato alcuni iniziano a capire ciò che prima gli sfuggiva e tra i liberali e i socialisti è ormai comune parlare di crisi e fallimento del liberalismo, dall’altro si diffondono panico e isteria. Molti hanno reagito al discorso di J.D. Vance alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco dichiarando che gli Stati Uniti stanno abbandonando l’Europa o che è “la fine dell’Occidente”. Alcuni pensano che Trump stia capitolando alla Russia e/o che sia un fascista che si appoggia ai suo consimili. Altri semplicemente che sia pazzo. All’estremo opposto dello spettro ci sono quelli che vedono in Trump ed Elon Musk le menti politiche che epureranno lo Stato profondo e inaugureranno un’età dell’oro per il capitalismo americano.
Per dare un senso al tutto, dobbiamo mettere da parte l’isteria dei liberali e considerare le tendenze reali che stanno dietro agli eventi quotidiani. Gli Stati Uniti non sono in procinto di abbandonare a sé stessa l’Europa, dove hanno enormi interessi economici e più di centomila soldati. E Trump non sta capitolando a Putin. Sta semplicemente allineando la politica statunitense alla realtà sul campo di battaglia in Ucraina in modo che gli Usa possano rivolgere altrove le loro attenzioni. E ovviamente non stiamo assistendo alla fine dell’Occidente. È l’Occidente liberale che è sul letto di morte.
La tendenza a lungo termine che definisce i cambiamenti nel mondo è il relativo declino degli Stati Uniti. Per ottant’anni, gli Stati Uniti sono stati la potenza egemone del mondo capitalista e, dopo il crollo dell’Urss, dell’intero pianeta. Ma la supremazia americana conteneva i semi del suo stesso declino. L’industria americana, un tempo potente, è stata in gran parte delocalizzata nel Sud globale. Le forze armate statunitensi si sono sovra-estese. Altri Paesi hanno conosciuto una vigorosa crescita economica, in particolare la Cina. Ma gli Stati Uniti rimangono la superpotenza mondiale, controllano la valuta di riserva e il sistema finanziario del mondo e l’esercito americano, che è ancora il più grande, resta il principale garante della sicurezza a livello mondiale. La crescente contraddizione tra la posizione egemonica degli Stati Uniti e il declino del loro potere economico ha raggiunto un punto di non ritorno. Questo spiega lo sconvolgimento della situazione mondiale.
Lungi dall’essere pazzo, Trump incarna un cambiamento cruciale di strategia dell’imperialismo americano, che mira a riaffermare il proprio dominio e ad invertire il declino, o almeno a rallentarlo. Per questo Trump cerca di reindustrializzare gli Stati Uniti in funzione bellica e di mettere sotto torchio gli alleati e le neocolonie statunitensi. La nuova amministrazione sta rottamando gli ideali e le istituzioni liberali che per decenni hanno dominato il sistema americano ma che ora sono diventati un ostacolo al rafforzamento della posizione degli Usa. Dietro le guerre commerciali, i negoziati con la Russia e i discorsi infuocati contro il “nemico interno”, c’è la necessità degli Stati Uniti di costruire un blocco, saldamente allineato alle politiche commerciali ed estere americane, per scontrarsi, isolare e soffocare la Repubblica popolare cinese, il loro principale rivale economico.
Contrariamente a quanto si crede, in particolare a sinistra, la fonte delle turbolenze nel mondo non è l’ascesa del cosiddetto imperialismo cinese o russo. La Cina ha conosciuto uno sviluppo economico senza precedenti nella storia dell’umanità, che però è avvenuto nel quadro dell’ordine mondiale guidato dagli Stati Uniti. Mentre gli Stati Uniti tentano di isolare la Cina, la burocrazia del Partito comunista di Pechino spera di preservare il vecchio ordine globale, magari senza il dominio Usa: pura fantasia. Per quanto riguarda la Russia, nonostante le sue enormi forze armate, ha un’economia minuscola rispetto agli Usa. Alla base della guerra degli oligarchi in Ucraina non c’è l’espansionismo del capitalismo russo, ma la sua reazione all’estensione del dominio degli Stati Uniti fino ai confini della Russia.
Checché ne dicano i media occidentali, il mondo resta un impero americano. La Cina, la Russia, l’alleanza dei BRICS+ non sono in lizza per il dominio del mondo. Non sono nemmeno in procinto di costruire un sistema alternativo a quello americano: cercano solo di sottrarsi all’aggressione Usa. Ma per la superpotenza mondiale, anche questi accenni di resistenza sono una sfida intollerabile, addirittura esistenziale, alla sua supremazia e non possono rimanere senza risposta.
La riaffermazione del dominio americano sta provocando gravi crisi economiche e politiche. I piani americani si scontrano con molti ostacoli e tra le ambizioni della classe dominante americana e la sua capacità di realizzarle ce ne passa. La nuova amministrazione si sta già scontrando con la rabbia degli altri Paesi. Sul piano domestico l’opposizione è destinata a crescere e anche se al momento Trump non affronta nessuna seria minaccia, prima o poi i suoi brutali attacchi dovranno scontrarsi con la resistenza della classe operaia, negli Usa e all’estero.
I governanti di Europa e Canada stanno inscenando una rumorosa opposizione alle pretese degli Usa. Ma sono dipendenti dagli Usa e nel breve periodo non avranno altra scelta che mettersi in riga. Una crisi economica, sommata alle pressioni americane, porterà probabilmente ad un’accelerazione nello spostamento a destra e faciliterà la caduta dei politici liberali europei e canadesi. In realtà le forze che sono in posizione migliore per trarre vantaggio da una recessione economica nel breve periodo sono i partiti di destra, che sono in crescita ovunque in Occidente. Questa lotta tra fazioni all’interno della classe dirigente avrà sicuramente un andamento burrascoso, coi liberali che si aggrappano al potere e faranno di tutto per mantenerlo.
Le dinamiche saranno diverse nel mondo neocoloniale (America latina, Asia, Africa ecc.). La maggior parte di questi Paesi è già strangolata dall’imperialismo. Il cappio sempre più stretto degli Stati Uniti sarà un disastro, perché già oggi c’è poco grasso che cola e milioni di persone vivono in completa miseria. Questa situazione spingerà la classe operaia e le masse a combattere il dominio americano e a resistere al saccheggio del Fmi. Negli ultimi anni abbiamo già visto lo scoppio di rivolte di questo tipo.
Per quanto riguarda la Cina, almeno a breve, l’instabilità non sarà provocata dalla penuria di risorse ma dalle contraddizioni interne al suo sistema. Il regime del Partito comunista è una casta burocratica che cerca di riconciliare capitalismo ed economia pianificata e il cui modello di crescita si è basato sull’ordine globalizzato guidato dagli Stati Uniti. Ma ora gli Usa cercano aggressivamente di isolare la Cina e di andare allo scontro. I vertici del Partito comunista saranno soggetti a enormi pressioni, sia da parte dei capitalisti che vedono sparire i loro profitti, sia da parte dell’enorme classe operaia cinese, le cui condizioni di vita sono sempre più precarie. Per tenere a freno queste forze contraddittorie, la burocrazia staliniana dovrà fare miracoli di equilibrismo e usare ogni mezzo a sua disposizione: le sovvenzioni all’industria, la retorica di sinistra e l’aumento della repressione. Ma non basterà a ritardare indefinitamente la scelta decisiva che sta di fronte alla Repubblica popolare: o la restaurazione capitalista o la rivoluzione politica della classe operaia.
In questo periodo di offensiva imperialista, di riarmo e di crisi crescenti, la domanda che si pone è: l’imperialismo Usa verrà sconfitto o continuerà a trascinare il mondo in una spirale di reazione, miseria e guerre? Per i comunisti, il compito dell’epoca è forgiare una direzione rivoluzionaria in grado di unire i lavoratori e gli oppressi e di condurre alla vittoria la lotta contro l’egemonia americana. Fare affidamento sugli stalinisti cinesi, sugli oligarchi russi, sui nazionalisti o sui socialdemocratici di ogni specie sarà fatale. Costoro non cercano di rovesciare l’egemonia statunitense e dato che si oppongono alla rivoluzione operaia, non sono in grado di condurre una lotta coerente o veramente progressista contro l’imperialismo. La liberazione dei lavoratori del mondo dall’oppressione e dallo sfruttamento avanzerà e avrà successo solo sotto la bandiera di una Quarta Internazionale riforgiata.
Lo scopo di questo documento è di orientare i rivoluzionari per il periodo a venire. È cruciale perché le forze rivoluzionarie sono ovunque deboli, screditate e terribilmente disorientate. Speriamo che questo documento possa contribuire a risolvere questo stato di cose.
Prima parte:
marxismo e gradualismo
Dal punto di vista politico, i liberali occidentali, i socialdemocratici, i burocrati sindacali, i sostenitori dell’alleanza BRICS+, gli stalinisti cinesi e molti cosiddetti rivoluzionari sono tutti accomunati da una cosa: le varianti di una concezione gradualista e pacifista della storia e delle relazioni mondiali che li paralizza di fronte alla nuova offensiva di Trump.
Per i liberali, è l’idea che il progresso sociale e la democrazia si sviluppino gradualmente con il procedere della storia. Allo stesso modo, i socialdemocratici e i capi sindacali riformisti pensano che lo sviluppo delle organizzazioni della classe operaia porti gradualmente al progresso e persino al socialismo. I sostenitori dei BRICS+ vedono lo sviluppo incrementale di Cina, Russia e Sud globale come una marcia lineare verso l’alto, verso un nuovo ordine mondiale più equo e “multipolare”. Vediamo ovunque la stessa tendenza a ridurre i grandi processi della storia ad uno sviluppo graduale e lineare, che porta ad un crescente progresso.
Purtroppo per loro, il mondo non funziona così. Nel corso della storia, lo sviluppo graduale porta a sconvolgimenti violenti e improvvisi. Il capitalismo si è sviluppato gradualmente all’interno del sistema feudale, per poi emergerne attraverso rivoluzioni e guerre. La speculazione finanziaria porta gradualmente alla crisi economica. Lo sfruttamento dei lavoratori porta gradualmente allo sciopero. L’accumulo graduale di quantità si trasforma in qualità, non in modo pacifico ma attraverso scosse improvvise. E la forza motrice del cambiamento nelle società è la lotta di classe tra oppressi e oppressori, che porta inevitabilmente a scontri violenti.
Il predominio delle concezioni gradualiste tra molti esponenti della sinistra riflette gli ultimi trent’anni di relativa stabilità. L’egemonia americana successiva alla distruzione dell’Urss ha consentito la globalizzazione e la rapida espansione del commercio mondiale. Seguendo la supremazia militare ed economica degli Usa, quasi tutti i Paesi si sono allineati e il capitale ha potuto muoversi liberamente, mentre le guerre imperialiste degli Stati Uniti si sono limitate ai pochi Paesi che ne sfidavano i diktat. La crescita economica e il relativo progresso sociale suscitavano l’illusione che il mondo stesse gradualmente incamminandosi verso nuove vette. Era questa la base economica del liberalismo, l’ideologia dominante del periodo post-sovietico.
Miliardari russi hanno acquistato squadre di calcio in Gran Bretagna. Magnati industriali indiani hanno acquistato ville in California. L’Unione europea è stata unificata all’insegna della pace e dei valori liberali. Persino gli stalinisti cinesi hanno abbandonato lo stile di Mao e indossato giacca e cravatta per camuffarsi da rispettabili capitalisti. Le relazioni economiche apparivano organiche, naturali e libere come il flusso globale del commercio. Molti a sinistra hanno dimenticato che l’imperialismo si mantiene con la forza. Lo hanno ridotto a una vaga nozione economica di “esportazione di capitali” e, poiché la maggior parte dei Paesi esporta capitali, l’imperialismo è ovunque e da nessuna parte allo stesso tempo. Qualsiasi Paese con una forte crescita del Pil, un vasto esercito e un po’ di milionari è diventato un imperialismo tra i tanti, su una specie di scala mobile dell’imperialismo.
Ma il periodo post-sovietico è stato reso possibile dalla supremazia di un’unica potenza imperialista: gli Stati Uniti, che sono giunti a dominare il mondo non tramite un processo pacifico e graduale, ma grazie alla Seconda guerra mondiale, la più grande carneficina della storia umana. La vittoria degli Usa ha permesso di unificare tutte le vecchie potenze coloniali (Giappone, Germania, Francia, Gran Bretagna, Italia) in un’alleanza guidata dagli Stati Uniti per contrastare l’Unione Sovietica. Gli Usa sono pervenuti a dominare l’intero globo distruggendo definitivamente l’Unione Sovietica con la controrivoluzione capitalista, che ha cancellato le conquiste del 1917 e distrutto il tessuto sociale della Russia e dell’Europa orientale.
Adesso Trump sta mettendo l’imperialismo statunitense sul piede di guerra. Sta invertendo la globalizzazione, rompendo con i valori e le istituzioni liberali e si sta preparando allo scontro con la Cina. I più sconvolti dall’offensiva di Trump sono quelli che si aggrappano al gradualismo. Non riescono a capire come il graduale declino economico degli Stati Uniti abbia portato inevitabilmente a una svolta improvvisa e brutale da parte della classe dirigente americana, che intende rafforzare la propria posizione con qualsiasi mezzo. Il vantaggio dei marxisti è proprio quello di capire che gli imperi si costruiscono con la guerra e si mantengono non solo con le relazioni economiche, ma anche con la forza. L’impero americano non uscirà dal palcoscenico della storia in modo graduale e pacifico, ma solo se cacciato con la forza. Per usare le parole del Manifesto comunista: “o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società, o con la comune rovina delle classi in lotta”.
Molti gruppi marxisti credono però che l’egemonia americana sia già finita! Credono che la Russia e la Cina siano diventate gradualmente potenze imperialiste. Credono che il mondo sia già stato ridiviso, che gli Stati Uniti abbiano perso la loro posizione egemonica in modo pacifico, grazie allo sviluppo economico graduale, senza guerre o fratture, e che il mondo sia ormai spartito tra blocchi imperialisti contrapposti. Spesso dicono queste cose pur sostenendo di essere leninisti. Eppure Lenin ha costantemente sottolineato come le guerre siano una caratteristica inevitabile del sistema imperialista e il mezzo con cui le grandi potenze combattono per ridividere il mondo in sfere di influenza. Il revisionismo di Lenin da parte della sinistra rivela una concezione gradualista che fa sparire il fatto che il mondo resta un impero americano e che il potere degli Usa si basa sul loro esercito e sulle 750 basi sparse in tutti i continenti.
In un certo senso, Trump la sa più lunga dei gradualisti. Sa che per rafforzare la posizione degli Stati Uniti deve prepararsi alla guerra e strangolare la Cina e che per riuscirci deve distruggere i liberali e i deboli di cuore che lo intralciano. Trump potrebbe quantomeno mostrare ai nostri gradualisti un paio di cose sulla natura dell’imperialismo e delle relazioni mondiali. È una questione cruciale: chi vuole combattere l’imperialismo americano deve liberarsi di ogni illusione gradualista. Altrimenti è impossibile capire il mondo, la direzione in cui sta andando e soprattutto, cosa bisogna fare.
Seconda parte:
come funziona il sistema americano
Molti sanno che gli Stati Uniti dominano l’economia globale, ma pochi capiscono come. Per dare un senso alle azioni di Trump, bisogna fare un passo indietro e capire i meccanismi cui ricorre l’imperialismo americano, la loro dinamica interna e i loro limiti.
Gli Usa sono usciti vincitori dalla Seconda guerra mondiale e hanno potuto prevalere su tutti i rivali grazie alla loro potenza industriale, che gli ha consentito di creare l’esercito più potente. Da questa posizione sono stati in grado di imporre il dollaro come valuta di riserva mondiale (usata per gran parte del commercio internazionale e come riserva da banche e governi). Il dollaro era legato all’oro che gli conferiva stabilità. Gli Stati Uniti prestavano denaro ad altri Paesi capitalisti, che lo usavano per comprare merci prodotte nelle fabbriche americane. Questo consentì di creare l’impero americano e di cooptare le vecchie potenze coloniali come soci di minoranza, per dominare il resto del mondo e contrastare l’Urss. Per la prima volta, il mondo capitalista venne unificato attorno al potere e alla moneta di un’unica potenza egemone.
Ma questa relazione mutò: mentre gli Stati Uniti facevano guerre contro gli alleati dell’Unione Sovietica in tutto il mondo, l’Europa e il Giappone ricostruirono la propria base industriale. Le merci prodotte negli Usa divennero meno competitive e gli Stati Uniti iniziarono a declinare economicamente. Le guerre all’estero misero dura prova il bilancio americano. In breve tempo, per finanziare le importazioni e le avventure militari, si videro costretti a stampare più denaro di quanto le loro riserve auree potessero sostenerne. Chiunque altro avrebbe fatto bancarotta. Invece gli Stati Uniti riuscirono a sfruttare la situazione a proprio vantaggio in maniera originale.
Dato che ora gli Stati Uniti importavano più di quanto esportassero, i Paesi stranieri si misero ad ammassare dollari nella convinzione di poterli convertire in oro. Ma il presidente Nixon prima limitò la convertibilità del dollaro e poi nel 1971 abolì completamente lo standard aureo. Adesso gli Stati Uniti potevano stampare quantitativi illimitati di moneta. Per di più pretesero che i Paesi stranieri che detenevano eccedenze di dollari comprassero a interesse i buoni del Tesoro americani, vale a dire il debito degli Stati Uniti (facendo in pratica dei prestiti al governo americano). Da allora in poi in pratica i Paesi stranieri hanno fabbricato merci per gli Stati Uniti per poi restituire agli Usa i dollari ottenuti in pagamento acquistano buoni del Tesoro e finanziando il crescente deficit di bilancio americano. I dollari sono tornati negli Usa anche sotto forma di investimenti azionari e di acquisto di beni americani (proprietà, ecc.). In poche parole, i Paesi stranieri hanno finanziato le guerre degli Usa mentre questi, potendo stampare tutti i dollari che volevano, hanno potuto contrarre debiti illimitati.
La fine dello standard aureo provocò sconvolgimenti, disordini economici e inflazione in tutto il mondo. Gli imperialisti europei si arrabbiarono per questa decisione unilaterale e la Francia si scagliò contro il “privilegio esorbitante” degli Usa. Ma in ogni caso l’Europa non aveva alternative: agli imperialisti europei come a quelli giapponesi faceva comodo fare gli scagnozzi dell’impero americano, che garantiva i loro interessi in patria e all’estero. Rifiutarsi di cedere avrebbe significato rompere con gli Usa, perciò accettarono un danno economico pur di mantenere la loro posizione privilegiata. Gli Usa inoltre si accordarono con la monarchia saudita e con i Paesi dell’Opec affinché il petrolio venisse venduto solo in dollari, in cambio dell’acquisto di buoni del Tesoro americano e della protezione militare. Così costrinsero chiunque volesse comprare petrolio a detenere vaste riserve di dollari.
Nel frattempo, il Terzo mondo venne costretto alla sottomissione. Per ottenere dollari, questi Paesi furono costretti a contrarre debiti a tassi estorsivi dalle banche statunitensi. Se non potevano pagare, il Fmi li costringeva ad imporre austerità e privatizzazioni e a spalancare i propri mercati alle aziende americane, strangolando decine di Paesi in un’interminabile crisi del debito che continua finora. Chi cercava aiuto dall’Urss doveva fare i conti con la potenza di Washington, sotto forma di sanzioni economiche, embargo e colpi di Stato. L’intero mondo capitalista si sottomise agli Stati Uniti, chi perché costretto, chi per i vantaggi che traeva dall’impero americano. Ad ogni modo, alla base di tutto c’era il fatto che gli Usa continuavano ad essere la potenza militare incontrastata del mondo capitalista.
Lo spiega bene un libro dell’economista Michael Hudson:
“Gli Stati Uniti fecero ciò che non era riuscito a nessuno dei sistemi imperiali precedenti: una forma di sfruttamento globale che controllava i paesi debitori imponendo il Washington Consensus tramite il Fmi e la Banca mondiale, mentre il sistema dei buoni del Tesoro obbligava le nazioni dell’Europa, dell’Opec e dell’Asia orientale, che avevano una bilancia commerciale positiva, a prestare denaro al governo americano. Gli Usa hanno continuato ad applicare la classica forza del creditore alle regioni in deficit di dollari, cosa che l’Europa e il Giappone non erano in grado di fare contro di loro. Le economie debitrici furono costrette all’austerità, bloccando l’industrializzazione e la modernizzazione agricola. Il loro ruolo designato era quello di esportatori di materie prime e fornitori di manodopera a basso prezzo, con salari denominati in valute sempre più deboli”. (Superimperialismo: la strategia economica dell’impero americano, 2021).
Hudson descrive abbastanza bene i meccanismi di sfruttamento del sistema americano ma li presenta sempre come scelte politiche sbagliate dei governanti di Washington, che dall’alto della loro posizione avrebbero potuto fare il bene del mondo. Nega invece che l’originale meccanismo di sfruttamento creato dagli Usa derivava dalla logica del capitalismo nella sua fase imperialista, cioè dagli interessi materiali della classe dirigente imperialista americana.
Come abbiamo visto, con il declino del peso economico e della competitività dell’industria, la produzione nazionale degli Usa non bastava da sola a sostenere i costi dell’impero. Bisognava stampare altro denaro fittizio ed estorcere altri Paesi costringendoli a prestare denaro acquistando i buoni del Tesoro, pagando i debiti alle banche americane o fornendo manodopera a basso costo alle aziende americane. Più la capacità produttiva degli Usa diminuiva, più dovevano ricorrere a mezzi parassitari per mantenere il loro impero globale. La contraddizione tra il declino delle forze produttive dell’economia americana e il costo dell’impero è una corda sempre più tesa.
Nel 1991, l’Unione Sovietica crollò sotto l’intensa pressione dell’imperialismo americano. Di colpo il sistema americano si estese all’intero pianeta, portando enormi profitti agli Stati Uniti ma alimentandone al contempo il declino. Il capitale poteva ora espandersi ovunque in nuovi mercati. Ma questo processo ha anche accelerato la deindustrializzazione degli Stati Uniti e delle altre potenze imperialiste, riducendone il peso economico e aumentando la finanziarizzazione. L’economia mondiale si è ulteriormente concentrata attorno a un gruppo di Paesi del Sud globale (in particolare la Cina) la cui manodopera a basso costo produceva merci per i mercati statunitensi/occidentali, mentre un terzo gruppo di Paesi veniva mantenuto nella più totale indigenza con lo strangolamento finanziario.
La Cina ha conosciuto un boom industriale senza precedenti, esportando grandi quantità di manufatti negli Stati Uniti e in Occidente. Ha accumulato enormi riserve di dollari, che ha reinvestito in titoli di Stato americani. Negli anni duemila, la Cina deteneva centinaia di miliardi di dollari di debito americano, destando preoccupazioni anche a Washington. In questo modo, la Cina ha svolto e svolge tuttora un ruolo significativo nel sistema del dollaro, come vedremo con la crisi del 2008. Ma la potenza industriale della Cina, le dimensioni della sua economia e le crescenti relazioni commerciali hanno iniziato a minare il dominio degli Stati Uniti. Si pensi, ad esempio, alla Via della Seta, il piano cinese volto a sviluppare il commercio fornendo progetti infrastrutturali, prestiti e beni a basso costo al Sud globale. La Via della Seta era parte integrante del sistema americano e molti dei suoi investimenti erano denominati in dollari, pur contribuendo a scuoterne le fondamenta: per i governanti americani, la Cina è diventata sempre di più una minaccia.
La crisi finanziaria del 2008 ha messo in luce le debolezze dell’impero americano. Ma il risultato a breve termine è stato il rafforzamento del ruolo del dollaro. Per evitare il collasso bancario, gli Stati Uniti hanno elevato a nuove vette il loro “privilegio esorbitante” stampando enormi quantità di dollari da gettare nel mercato azionario. Per scongiurare il rischio di crollo dei loro partner minori, gli Stati Uniti hanno esteso linee di credito illimitate alle banche centrali europee e ad altri alleati: le “linee di swap”. Queste sono diventate una caratteristica permanente di un sistema finanziario che ha continuamente bisogno di somme sempre maggiori di denaro fittizio per scongiurare il collasso. Anche il Sud globale ha ottenuto prestiti dal Fmi per evitare il crollo dell’economia. Il tutto è stato pagato con drastici programmi di austerità che hanno colpito anche l’Europa. Ma per finanziarsi, gli Stati Uniti hanno anche fatto pressione sulla Cina affinché acquistasse enormi quantità di Buoni del Tesoro. Per mantenere la stabilità, la burocrazia del Pcc ha accettato, finanziando il sistema del dollaro per tutta la durata della crisi.
Lo stesso processo si è ripetuto ad un livello anche superiore durante la pandemia. Mentre le economie si fermavano, gli Usa hanno stampato più denaro di quanto ne abbiano speso durante tutta la Seconda guerra mondiale (in termini odierni). I loro alleati hanno fatto altrettanto grazie alle linee di swap. Così il sistema è stato spinto al limite, provocando l’inflazione e un’enorme bolla del mercato azionario. Anche il deficit degli Stati Uniti è esploso, tanto che oggi spendono mille miliardi di dollari all’anno solo per pagare gli interessi. Inoltre, con l’inizio della guerra in Ucraina, la Russia è stata praticamente tagliata fuori dal sistema del dollaro. È la prima volta dalla Guerra Fredda che un’economia importante ne viene esclusa, ma ciò non ha determinato lo strangolamento della Russia. Anzi, la Russia ha potuto funzionare e persino di vincere sul campo di battaglia. Questi ed altri fattori hanno portato il sistema americano a limiti esistenziali. L’imperialismo americano deve trovare in fretta una nuova strategia. È questa la ragione per cui Trump sta facendo a pezzi lo status quo.
Terza parte:
l’imminente crisi economica
I dazi di Trump stanno già gettando scompiglio nel mercato azionario. L’instabilità finanziaria farà sicuramente scoppiare l’enorme bolla speculativa che si va gonfiando dal 2008. Il documento della nostra Conferenza internazionale del 2023 prevedeva che sarebbe avvenuto prima (vedi “Il declino dell’impero americano e la lotta per il potere operaio” Spartaco n. 86, maggio 2024) ma nuove speculazioni sull’Intelligenza artificiale e sulle grandi tecnologie hanno fatto sì che si prolungasse. Ora il boom dell’Intelligenza artificiale si sta esaurendo e la nuova amministrazione americana non investe più cifre enormi. Una crisi economica, o almeno una grave recessione, è sicura.
Una recessione aggraverà tutte le tendenze economiche e politiche in atto. Non possiamo sapere con esattezza come si evolverà la situazione, ma sono possibili due scenari: o l’intero ordine postbellico andrà in frantumi, ponendo fine al dominio del dollaro, oppure la maggioranza dei Paesi accetterà di nuovo di svenarsi per salvare il sistema americano e consentirgli di sopravvivere su basi ancor più oppressive. La seconda ipotesi ci sembra la più probabile, almeno a breve termine.
Come si è visto nel 2008, un crollo finanziario non spingerà i Paesi ad abbandonare il dollaro. Quando una crisi colpisce, i dollari tornano al “porto sicuro” negli Usa lasciando tutti a bocca asciutta. E chi ha le mani sul rubinetto del dollaro? I governanti americani. Imponendo dazi a tutti gli Usa, che restano il principale mercato di beni di consumo, hanno aumentato la loro influenza. Per questo una crisi economica non indebolirà Trump a scala globale, ma rafforzerà la sua posizione rispetto a tutti gli altri.
Le banche in Europa, Giappone, Canada e altri partner minori degli Usa avranno bisogno di un massiccio afflusso di liquidità per evitare il collasso. La chiederanno agli Usa che in cambio vorranno austerità e concessioni alle aziende americane. Si è parlato molto della possibilità che gli Usa impongano un “Accordo di Mar-a-Lago” ai loro alleati: un piano per costringerli ad acquistare nuovi Buoni del Tesoro americani a lungo termine e con interessi minori, ad aumentare la spesa per la difesa (comprando armi di fabbricazione statunitense) e a contribuire a svalutare il dollaro per favorire le esportazioni americane. In poche parole: a sabotare le proprie economie a vantaggio di quella americana e a finanziare il deficit Usa a tassi ridotti. In caso di crisi, la pressione americana sui loro alleati perché accettino accordi del genere sarà decuplicata.
Nel Sud globale, gli investimenti e i capitali saranno risucchiati. Una crisi farà scoppiare tutte le bolle secondarie, come la bolla del mercato azionario in India. Diminuiranno le rimesse che i migranti che lavorano all’estero (spesso in Occidente) rimandano nel proprio Paese e che sono un’importante fonte di reddito e di liquidità (l’8,5% del Pil nelle Filippine, il 4,5% in Messico e molti paesi sono nella stessa situazione). Mancheranno i dollari per pagare il debito estero che in decine di Paesi è ai massimi storici. Il Fondo monetario internazionale interverrà con programmi di “ristrutturazione del debito” a scapito della spesa pubblica, dei beni di proprietà dello Stato, delle barriere protezionistiche e delle entrate nazionali.
Molti Paesi sono già a un punto di rottura. In Messico, il settanta percento della popolazione riceve un sostegno finanziario dallo Stato, che spesso previene la fame. Una crisi probabilmente farà a pezzi molti programmi sociali di Stato. Solo il dieci percento degli 1,4 miliardi di abitanti dell’India possiede denaro, il resto vive alla giornata. Una stretta è destinata ad essere esplosiva e a far esplodere anche le divisioni di casta, religiose e nazionali che già sono pervasive. Gli Usa vogliono schiacciare anche il Sudafrica, Paese dove la disoccupazione è già al 32 percento e dove una crisi strangolerà ancor più l’economia.
E stiamo parlando di Paesi in cui gli Stati Uniti e l’Occidente hanno forti interessi economici e che vorranno salvare, anche se sicuramente a prezzi estorsivi. Ma vi è un altro strato di Paesi che gli imperialisti non si fanno scrupoli a lasciare in uno stato di caos totale, pur di poterne saccheggiare le risorse e di impedire che emerga una forza in grado di unirli e di contrastare il saccheggio. È il caso di gran parte dell’Africa orientale e centrale e di alcuni Paesi del Medio Oriente. In questi Paesi, che sono già dilaniati da carestie e guerre, una crisi spazzerà via i magri introiti che ottengono dal mercato mondiale. È probabile che la pressione economica alimenterà altre sanguinose guerre regionali ed etniche e flussi sempre più consistenti di rifugiati.
La grave miseria del Sud globale (escluse Cina e Russia) provocherà esplosioni sociali ed eserciterà un’enorme pressione sui regimi locali. Le deboli borghesie nazionali saranno sempre più costrette o a mettersi in riga con i piani americani, o ad appoggiarsi al sentimento antimperialista delle masse. In entrambi i casi, ciò determinerà una crescente tendenza al bonapartismo e ai colpi di Stato.
Per quanto riguarda la Russia, il passaggio ad un’economia di guerra le ha consentito di crescere nonostante l’esclusione dal sistema del dollaro. Il regime degli oligarchi è relativamente solido, soprattutto grazie all’imminente vittoria in Ucraina. Ma una crisi farà crollare il prezzo del petrolio, una delle principali esportazioni russe, creando inevitabilmente difficoltà anche in questo settore. E i veri problemi della Russia inizieranno probabilmente dopo la guerra in Ucraina, quando la produzione bellica cesserà e decine di migliaia di soldati saranno smobilitati.
Una delle domande più importanti che saranno poste da una crisi imminente è: cosa farà la Cina? Come abbiamo visto, già nel 2008 la leadership del Pcc ha sostenuto a tutti gli effetti il sistema del dollaro, acquistando enormi quantità di Buoni del Tesoro americani. Gli Usa correranno di nuovo a stampare banconote e magari chiederanno alla Cina di aiutarli a stabilizzare l’economia mondiale sotto il controllo americano. Sembra impensabile ora che gli Usa vogliono strozzare la Cina. Ma la burocrazia del Partito comunista è una forza conservatrice, interessata alla propria stabilità e ai propri privilegi e stretta tra un’enorme classe operaia e l’imperialismo americano. È probabile che voglia salvare il sistema del dollaro in un momento di crisi. Non possiamo sapere esattamente come si evolveranno le cose o se il Pcc sarà costretto a una posizione più conflittuale. Ma non bisogna mai sottovalutare la determinazione delle burocrazie staliniste a cercare un accomodamento con l’imperialismo mondiale.
Queste previsioni riguardano l’impatto a breve termine di una crisi e si basano sul fatto che la posizione degli Usa verrà rafforzata da loro controllo sulla valuta di riserva mondiale e sui flussi di capitale. Ma questo varrà solo all’inizio. Il mondo non è più quello del 2008. La posizione degli Usa è più precaria, perché devono affrontare sfide crescenti e il prezzo che devono esigere per mantenere il sistema del dollaro è maggiore. Le condizioni che gli consentono di derubare il mondo col sistema del dollaro sono molteplici. La prima è che gli alleati imperialisti minori continuino ad accettare un ruolo subordinato nell’impero in cambio di privilegi. La seconda è che molti Paesi non hanno alternative. La terza, per tutti gli altri, è la violenza pura e semplice. A medio e lungo termine vari Paesi potrebbero staccarsi con modalità diverse dal sistema del dollaro. Ma questo non sarebbe automaticamente uno sviluppo positivo. Potrebbe essere positivo solo se aiutasse la lotta della classe operaia internazionale contro l’intero sistema imperialista.
Quarta parte:
la guerra in Ucraina
Niente ha provocato l’isteria dei liberali quanto l’atteggiamento di Trump verso la guerra in Ucraina e il cambio di linea della sua amministrazione. Molti hanno gridato al tradimento, sostenendo che Trump si è inchinato ad un altro autocrate lasciando sola l’Europa a difendere la libertà, la democrazia e i valori dell’ordine postbellico. Anche in questo caso, per capirci qualcosa, bisogna innanzitutto scordarsi dell’isteria liberale.
Checché ne dica il Ministero della Difesa ucraino, coi suoi bollettini sulla situazione militare che vengono ripresi acriticamente dalla stampa e dai politici liberali, l’Ucraina sta perdendo la guerra. L’avventura di Zelensky a Kursk si è conclusa con un completo disastro e lungo tutta la linea del fronte l’esercito manca di uomini e di armi e si sta disgregando. Intanto le forze russe avanzano ovunque, le dimensioni dell’esercito aumentano e sembra che sia in preparazione una vasta offensiva. Mentre l’economia ucraina è in rovina, quella russa è cresciuta nonostante le sanzioni ed è stata riorganizzata in funzione di un’imponente produzione bellica. Inoltre, per rifornire l’Ucraina per una guerra industriale ad alta intensità l’Occidente ha esaurito velocemente le sue scorte di armi occidentali. L’impotenza industriale dell’Occidente è venuta a galla: tutti insieme i Paesi della Nato possono produrre 1,2 milioni di proiettili d’artiglieria all’anno, mentre la sola Russia ne produce oltre 3 milioni.
Dal punto di vista di Washington, che è stato di gran lunga il maggior donatore di aiuti militari, la politica di completa ostilità alla Russia e di sostegno all’Ucraina fino alla vittoria totale si è rivelata un costoso fallimento. La nuova amministrazione non fa altro che riportare alla realtà la politica americana. Gli Usa non hanno interessi vitali in Ucraina. Per quanto la Russia rappresenti una sfida geostrategica ai piani americani, la sua economia è troppo piccola per rappresentare una minaccia paragonabile a quella cinese. Per questo molti membri della nuova amministrazione americana pensano che tre anni di guerra in Europa siano stati uno spreco di risorse che avrebbero potuto essere utilizzate meglio nel Pacifico. La guerra in Ucraina ha anche rafforzato i legami tra Russia e Cina e questo è un problema per gli interessi degli Stati Uniti. Da ciò si capisce perché gli Stati Uniti cerchino non solo di porre fine alla guerra, anche a costo di fare concessioni, ma di giungere ad un riavvicinamento economico e politico con la Russia. Questo potrebbe riavvicinare la Russia all’Occidente e staccarla dalla Cina, o almeno evitare che continui ad essere una spina nel fianco.
Per il Cremlino, l’Ucraina, un Paese di confine che storicamente è appartenuto alla sfera di influenza russa, riveste un interesse vitale. Il clamore sull’espansionismo russo nasconde la realtà che negli ultimi tre decenni sono state la Nato e l’Ue ad espandersi fino ai confini della Russia, nonostante le sue continue obiezioni. Quello che Putin vorrebbe da tempo è un accordo con l’Occidente che garantisca il suo confine occidentale, freni l’espansionismo della Nato e assicurai alla Russia il controllo sull’Ucraina. Per questo guarda con interesse all’offerta di Trump. Detto questo, la classe dirigente russa non ha alcun interesse ad abbracciare l’Occidente e a tagliare i ponti con la Cina. Al contrario, dal loro punto di vista un accordo con gli Stati Uniti sarebbe vantaggioso non solo per porre fine all’espansione della Nato, ma anche per consentire loro di giocare la Cina contro gli Stati Uniti e viceversa, traendo da entrambi benefici per la sua economia.
I recenti sviluppi hanno dimostrato come coloro che a sinistra si sono schierati con l’Ucraina o con la Russia hanno commesso un grave errore. La tesi principale dei socialisti che hanno sostenuto la Russia è stata che la sua vittoria avrebbe sferrato un colpo agli Stati Uniti, cosa positiva. L’imminente vittoria russa mostra chiaramente il fallimento di questa posizione. Anche se stanno perdendo la guerra, gli Usa non la combattono direttamente ma per interposta persona. I “socialisti” filorussi hanno tralasciato questo tratto essenziale come se fosse irrilevante. Ma è proprio questo che consente agli Usa di rovesciare la frittata, di gettare alle iene il loro fantoccio e di accordarsi con la Russia per saccheggiare insieme l’Ucraina. A prescindere dal contenuto di un futuro accordo tra Stati Uniti e Russia (ammesso che ci sia), la guerra della Russia non avrà fatto avanzare la lotta contro l’imperialismo in Europa orientale, né avrà indebolito gli Stati Uniti in modo decisivo. Il risultato sarà l’oppressione dell’Ucraina da parte della Russia, il riarmo dell’Europa e lo spostamento dell’attenzione degli Stati Uniti verso il confronto con la Cina, tutti sviluppi reazionari e prevedibili.
I socialisti che hanno sostenuto l’Ucraina sono stati altrettanto fallimentari. La loro tesi principale è stata la necessità di difendere la sovranità di una piccola nazione dall’aggressione straniera. Ma la sovranità dell’Ucraina poteva essere difesa solo opponendosi al suo governo. Per anni, il regime di Kiev ha oppresso la minoranza russofona (circa il venti percento della popolazione) e fatto guerra per conservare la Crimea e le regioni orientali che desideravano chiaramente la secessione. Allo stesso tempo, si è schierato con la Nato, l’Ue e agli Stati Uniti, cedendo la propria sovranità militare ed economica agli imperialisti. Il risultato è stato la trasformazione dell’Ucraina in una colonia occidentale e la totale ostilità della Russia, che ha trovato un pretesto bellico bell’e pronto. La disastrosa strategia di Zelensky di legare il destino dell’Ucraina agli Stati Uniti, come dimostra la sua umiliazione nello Studio Ovale, ha tragicamente confermato le parole di Henry Kissinger: “Essere nemici dell’America è pericoloso, ma esserle amici è fatale”. I socialisti che hanno difeso il governo ucraino in modo più o meno critico, hanno finito per svolgere il ruolo degli utili idioti nel gioco degli imperialisti.
L’unica politica socialista in questa guerra reazionaria era ed è la lotta per la fraternizzazione tra ucraini e russi, basata sull’opposizione incondizionata all’imperialismo occidentale e ai suoi fantocci ucraini e sull’opposizione allo sciovinismo grande russo, oltre che la difesa dei diritti delle minoranze russe. Questa è l’unica strada che può unire la classe operaia dell’intera regione. È così che si può spezzare in modo progressista l’accerchiamento della Russia da parte degli imperialisti; che si può garantire la libertà dell’Ucraina e di tutta l’Europa orientale dall’oppressione nazionale. È certo una strada irta di ostacoli, ma è l’unica via di uscita costruttiva. L’incapacità del movimento operaio di adottare una politica indipendente e il fatto che i suoi capi si siano schierati chi con gli imperialisti e le loro marionette, chi con gli oligarchi russi, ha condannato i lavoratori dell’Ucraina, della Russia e di tutta Europa a una catastrofe assicurata.
I negoziati tra Russia e Stati Uniti sono ancora ai primi passi e potrebbero protrarsi per dei mesi. Gli Usa vorrebbero porre fine alla guerra il prima possibile, ma la Russia non ha fretta. Sta vincendo sul campo di battaglia, prepara nuove offensive e non ha bisogno di fare concessioni. Per gli Usa sarà un bel problema e li costringerà a limitare i danni. Gli Usa tra l’altro devono gestire il loro proxy ucraino, che sostengono da oltre un decennio fomentando gli ultranazionalisti ucraini, gente che non è esattamente propensa alla riconciliazione con la Russia. Finora, gli ucraini hanno fatto di tutto per far fallire i negoziati. Ma la questione non è se Zelensky sarà rovesciato, ma quando, come e da chi. Gli Usa devono anche far fronte all’ostilità di gran parte dell’establishment europeo e di una parte della classe politica americana.
Data l’inerzia dell’Occidente, non è inverosimile che si giunga ad un’imponente avanzata russa e persino che i carri armati russi entrino a Kiev. Questo spalancherebbe la porta ad un accordo tra Usa e Russia… alle condizioni della Russia, tra cui la garanzia del controllo russo sulle quattro regioni orientali dell’Ucraina, la rimozione del regime di Zelensky, la fine dell’espansione della Nato verso Est e del suo sostegno a ciò che resterebbe dell’Ucraina. Alcune sanzioni potrebbero essere revocate, anche se resta da vedere se le relazioni commerciali con l’Europa torneranno ai livelli precedenti al 2014. In cambio, gli Usa potrebbero chiedere alla Russia di aiutarli in altri ambiti, ad esempio premendo sull’Iran affinché abbandoni il programma nucleare.
Ma c’è una conseguenza ancor più fondamentale di un possibile accordo di sicurezza tra Stati Uniti e Russia: l’Europa verrebbe costretta ad un assetto reazionario. Né gli Stati Uniti, i padroni dell’Europa, né la Russia hanno interesse alla sua instabilità. Per la Russia è sempre stato un pessimo affare e agli Usa serve un’Europa stabile per concentrare altrove le proprie forze. La Russia, con la sua forza militare, le abbondanti risorse naturali e il suo serbatoio di conservatorismo religioso, potrebbe benissimo fare causa comune col capitale finanziario americano e col suo nuovo establishment cristiano di destra per strozzare l’Europa liberale. Un riavvicinamento tra Stati Uniti e Russia sarebbe un fattore di stabilizzazione conservatore e reazionario in Europa.
È il ruolo che la Russia ha svolto nella politica europea per tutto il XIX secolo: un bastione della reazione su cui la Gran Bretagna, la grande potenza dell’epoca, poteva fare affidamento per stabilizzare l’Europa. Oggi ovviamente la situazione è diversa, ma un accordo americano-russo che definisca la politica europea sarebbe nell’interesse sia della Russia che dell’imperialismo statunitense, che preme per un fondamentale riallineamento politico del continente.
Quinta parte:
Europa e America
I negoziati di Trump con la Russia, l’umiliazione di Zelensky nello Studio Ovale, l’imposizione di tariffe doganali e il discorso di J.D. Vance che ha trattato l’establishment liberale europeo di “nemico interno” hanno scosso l’Europa. Nel giro di poche settimane, l’ordine europeo basato sulla globalizzazione, sul libero scambio, sui valori liberali e sull’ostilità alla Russia (un sistema costruito per anni sotto l’egida degli Stati Uniti e garantito dalla loro potenza militare) è stato oggetto di continui attacchi da parte della Casa Bianca. Il panico attanaglia le élite europee. Per anni, i politici liberali, sempre più odiati dai loro stessi popoli, potevano consolarsi pensando di godere delle grazie della superpotenza mondiale. Ora non è più così. L’amministrazione Trump ha sancito la morte del liberalismo in tutto l’impero americano e ha fatto dell’Europa liberale e “scroccona” un obiettivo primario del riassetto politico.
L’amministrazione Trump deve ottenere di più dall’Europa per rafforzare la posizione degli Stati Uniti, in particolare per quanto riguarda la spesa per la difesa e le condizioni commerciali. Lungi dall’abbandonare l’Europa, gli Usa ne hanno bisogno per consolidare un blocco anticinese più aggressivo che possa contribuire meglio alla sicurezza degli Stati Uniti. Il problema è che per farlo bisogna trasformare radicalmente l’Europa. Le istituzioni e le strutture di governo europee sono state costruite a servizio del vecchio ordine liberale americano. L’Unione Europea (un enorme apparato burocratico legato a innumerevoli istituzioni liberali) ha interessi economici radicati nello status quo. E l’Europa è ancora guidata da politici come Emmanuel Macron, Friedrich Merz, Ursula von der Leyen, Keir Starmer e Pedro Sánchez, che hanno fatto carriera nel vecchio ordine liberale vi si aggrappano. Questi leader incarnano per molti aspetti l’enorme divario politico tra la vecchia Europa post-sovietica e la nuova amministrazione di destra americana.
Dopo che Trump ha umiliato Zelensky, Kaja Kallas, responsabile della politica estera dell’Ue e arci-guerrafondaia antirussa, ha dichiarato che “il mondo libero ha bisogno di un nuovo leader” e “spetta a noi europei raccogliere la sfida”. Molti commentatori e politici liberali hanno chiesto all’Europa di tracciare finalmente la propria strada, indipendentemente dagli Stati Uniti, per sostenere i valori liberali, scontrarsi con la Russia e continuare ad appoggiare l’Ucraina. Questo dimostra soltanto che i dirigenti europei vivono in un mondo a parte. La verità è che tutte le principali economie europee si trovano in un misero stato di stagnazione. Con la parziale eccezione della Germania, hanno perso quasi tutta l’industria e si affidano in gran parte alla finanza, ai servizi e al turismo. In tutto il continente, le infrastrutture cascano a pezzi e la popolazione invecchia. Sul piano militare, l’Europa non è attualmente in grado di condurre nessuna guerra convenzionale. I suoi eserciti, piccoli e obsoleti, dipendono dalla potenza aerea, dalla logistica, dall’intelligence, dai rifornimenti e dai sistemi di comando americani per qualsiasi operazione seria.
Il primo ministro polacco Donald Tusk può ripetere quanto vuole che l’Europa nell’insieme è più forte della Russia, ma non basta a farlo diventare vero. L’Europa è balcanizzata in Paesi con interessi contrastanti. I liberali scordano sempre che è solo perché gli Stati Uniti dominano economicamente e militarmente l’Europa dal 1945 che il continente è stato unificato invece di frantumarsi. Le ambizioni dei leader europei di prendere la testa del “mondo libero”, di costruire una “coalizione dei volenterosi” o di pervenire alla “autonomia strategica” sono pie illusioni. L’Europa è completamente dipendente dagli Stati Uniti, militarmente ed economicamente. A breve, e probabilmente anche a medio termine, né l’Europa né una qualsiasi singola potenza europea potrà svolgere un ruolo indipendente dagli Stati Uniti.
Le sbruffonate, le dichiarazioni feroci e la negazione della realtà nei circoli dirigenti europei celano un’anomalia che si è rafforzata nel tempo. C’è una crescente contraddizione tra la sovrastruttura politica dell’Europa, le sue istituzioni, l’ideologia, la burocrazia, i politici, eccetera, e la sua base economica reale, vale a dire la sua totale debolezza e dipendenza dagli Stati Uniti. Prima o poi, questa contraddizione dovrà essere risolta e l’Europa non avrà altra scelta che abbandonare il liberalismo ormai superato e mettersi in riga. L’ascesa dei partiti populisti di destra incarna questa tendenza crescente (l’AfD in Germania, l’Rn in Francia, Reform UK in Gran Bretagna, l’FpÖ in Austria, la Meloni al potere in Italia). L’amministrazione americana li favorisce, non perché concordi con la loro politiche, ma perché sono le forze che possono distruggere lo status quo liberale nel modo migliore per gli interessi degli Stati Uniti.
Finora il centro politico in Europa ha tenuto. Il fatto che molti politici si sentano abbastanza forti da resistere (parzialmente) alle richieste degli Stati Uniti e da difendere (a malincuore) lo status quo liberale riflette interessi economici radicati. In primis, i capitalisti europei hanno tratto grandi benefici dagli accordi degli ultimi trent’anni, sono riluttanti a cambiare e non si fidano ancora del tutto dei partiti di destra emergenti. In secondo luogo, c’è l’inerzia delle istituzioni e della burocrazia europee. In terzo luogo, nei Paesi europei avanzati esiste ancora una consistente classe media. Questo strato, spesso legato alle istituzioni europee e con un tenore di vita relativamente alto è la base principale dei partiti centristi, anche in Gran Bretagna. I formalisti di sinistra hanno voglia a ripetere che il Partito Laburista è un partito operaio borghese. C’è un fondo di verità, ma la vera base del Labour oggi non sono gli operai ma la classe media delle città.
Abbiamo visto in azione questa tendenza nelle elezioni tedesche di febbraio. I consensi per la destra dell’AfD sono molto aumentati (soprattutto tra gli operai) ma i partiti tradizionali hanno mantenuto una vasta maggioranza dell’elettorato, dimostrando che il liberalismo tedesco non è ancora del tutto morto. L’impennata di consensi per il Partito della Sinistra, esaltata dalla maggior parte dell’estrema sinistra internazionale, è arrivata in realtà soprattutto da ex elettori verdi piccolo-borghesi e va letta come una difesa dello status quo liberale. In Germania come altrove, il sostegno popolare ai partiti di destra e antisistema è arrivato soprattutto dalla classe operaia, in particolare dai suoi strati più bassi, ma anche da strati dell’aristocrazia del lavoro.
L’Europa continua a essere dominata da politici “di transizione” (Macron, Starmer, Merz & Co.) con un piede nell’ordine liberale europeo e l’altro nella reazione, nel tentativo di coprirsi a destra. Così ovviamente scontentano tutti. Questi governi, saliti al potere per bloccare l’“estrema destra”, sono completamente screditati dalla popolazione e hanno i giorni contati. Ma la loro caduta e la sostituzione con la destra, ormai quasi inevitabile, non saranno pacifiche e lineari, ma il risultato di acute crisi politiche ed economiche. Sulla carta, le elezioni in Gran Bretagna e Germania sono lontane anni. Macron ha ancora due anni prima delle presidenziali e l’establishment francese ha vietato a Marine Le Pen di candidarsi. I liberali useranno ogni trucco per restare al potere. Ma date le richieste statunitensi di un riallineamento politico e il divario tra la base economica dell’Europa e le idee e le ambizioni della sua classe politica, la situazione non può durare.
La prossima crisi economica metterà in piena luce la natura putrida delle economie europee. Uno scossone economico, unito a drastiche misure di austerità, colpirà duramente la classe media e la classe operaia. La necessità del riarmo andrà a scapito del welfare, che in alcuni Paesi resta importante. Il malcontento già diffuso tra le masse, crescerà. Questo provocherà gravi crisi politiche che costringeranno i politici dell’aureo medio a lasciare il posto a governanti più decisionisti.
Naturalmente, nei Paesi europei oppressi dall’imperialismo, le dinamiche politiche sono diverse. Serbia e Grecia sono state scosse da movimenti popolari di massa contro i loro governi, alimentati dalla rabbia per il saccheggio imperialista. La Grecia, in particolare, negli anni dopo il 2010 ha già conosciuto una crisi che ha devastato ampi settori della popolazione. In questi Paesi, sia la piccola borghesia che la classe operaia sono molto più povere. La crisi economica e l’austerità avranno un carattere molto più esplosivo, col rischio concreto di governi bonapartisti. D’altronde basta guardare all’Ungheria per capire dove va politicamente l’Europa. Il primo ministro Viktor Orbán, un cristiano reazionario vicino alla Russia e agli Stati Uniti, è stato a lungo la bestia nera dell’Ue per la sua opposizione al liberalismo. Invece precorre i tempi.
Nelle condizioni attuali della classe operaia, una recessione economica all’inizio probabilmente smorzerà la militanza invece di incoraggiarla. L’aumento della disoccupazione e la devastazione del tenore di vita delle classi lavoratrici e medie non facilitano le lotte della classe operaia. Inoltre, una crisi economica accelererà le dinamiche politiche in atto, che favoriscono i partiti di destra antisistema. Negli ultimi dieci anni la sinistra, grazie al suo sostegno allo status quo liberale, ha fallito miseramente e ha spinto a destra sempre più lavoratori. La rabbia di molti operai le cui condizioni di vita sono state devastate, dato l’appoggio della sinistra al liberalismo ha trovato sfogo nel veleno anti-immigrati.
Nel 2022-’23 ci sono state anche importanti lotte sindacali, come il movimento per le pensioni in Francia e l’ondata di scioperi in Gran Bretagna. Avrebbero potuto essere occasioni importanti per spostare l’equilibrio delle forze a favore della classe operaia e posizionare il movimento dei lavoratori come forza rivolta contro lo status quo. Ma questi movimenti sono stati tutti portati alla sconfitta dai loro dirigenti che hanno rifiutato di organizzare un vero scontro con la classe dirigente. Il più delle volte, questi traditori sono stati appoggiati dall’estrema sinistra. In Grecia, di recente, abbiamo assistito a un’altra occasione mancata con il movimento di Tempe, in cui i leader del movimento operaio si sono dimostrati del tutto impotenti. Questi tradimenti hanno minato notevolmente la posizione della classe operaia e alimentato ulteriormente la svolta a destra.
Continuando ad aggrapparsi al liberalismo, all’Ue, all’agenda “verde” o all’armamento dell’Ucraina (e adesso in molti casi appoggiando apertamente il riarmo), vale a dire a tutto ciò che i lavoratori odiano, la sinistra in Europa non farà altro che far crescere i partiti di destra. Per bloccare la destra, la sinistra continua a immergersi nei “fronti popolari” con la classe dominante, ma l’unico effetto che ottiene è quello di rafforzare il fascino della destra tra i lavoratori e screditare ancor più la sinistra. L’unica forza di sinistra formatasi nella fase di ascesa del 2010 che non si è ancora sciolta del tutto è La France Insoumise di Mélenchon. Ma anch’essa si aggrappa al peso morto del Parti Socialiste e al front républicain contro l’Rn, col solo risultato di aiutare l’Rn a prendere altri voti tra la classe operaia.
In questo difficile contesto, il compito dei comunisti è di lottare per mettere la classe operaia in una migliore posizione difensiva. Non è il momento delle offensive sconsiderate. All’orizzonte si profilano pesanti attacchi e il movimento operaio in Europa è debole e diviso. Le sue organizzazioni sono l’ombra di sé stesse. I sindacati sono spesso stratificati, divisi tra categorie e professioni e ristretti ai settori dell’aristocrazia operaia. I comunisti devono essere all’avanguardia nella lotta per abbattere queste divisioni, rafforzare le organizzazioni dei lavoratori e condurre azioni di difesa. In ogni fase, ciò deve avvenire in totale opposizione alla burocrazia sindacale. I comunisti devono formare dei gruppi nei sindacati che lottino per guidarli con una strategia comunista in grado di collegare le esigenze immediate dei lavoratori alla necessità del potere della classe operaia, smascherando al contempo il tradimento dei burocrati sindacali. È così che i comunisti possono riconquistare autorità tra la classe operaia e smontare il fascino della destra.
È possibile che per un po’ di tempo continuino ad agitarsi i rottami esausti dei movimenti liberali. Ma saranno solo gli ultimi sussulti di una specie in via di estinzione. Man mano che la borghesia liberale verrà calpestata dagli Usa e la piccola borghesia ridotta al lastrico, non vi saranno più le basi per movimenti liberali democratici di massa, per i diritti degli immigrati, ecc. Un settore sempre più ridotto della sinistra cercherà di tenerli in vita, continuando a screditarsi di fronte alla classe operaia (cosa che vediamo attualmente negli Stati Uniti). Dobbiamo intervenire in questi ambienti, esortando i militanti di sinistra a svegliarsi, a disfarsi del liberalismo e a volgersi verso la classe operaia. Dobbiamo lottare per ricostruire i movimenti in difesa degli immigrati e dei musulmani e contro la destra, ma su una base diversa: lontano dal vicolo cieco del liberalismo e su una base operaia e antimperialista, anche contro l’Ue.
Questi compiti riguardano anche i Paesi oppressi (Balcani, Europa orientale, ecc.) dove il compito è di legare la lotta contro la povertà alla lotta per liberare il Paese dall’oppressione imperialista. Per questo bisogna smascherare continuamente i dirigenti traditori delle masse, che siano nazionalisti, stalinisti o burocrati sindacali, che cercano la conciliazione con gli Stati Uniti e l’Ue o che rifiutano di legare la lotta delle masse all’oppressione straniera del paese. È questo è l’unico modo per unire tutti gli oppressi e le minoranze nazionali e conquistare i lavoratori e i giovani a una strategia di lotta di classe per l’emancipazione nazionale e sociale.
[Traduzione di “U.S. Imperialism Turns the Screws”, supplemento a Spartacist (edizione inglese), 26 aprile 2025]