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ll movimento di scioperi per la Palestina che si è sviluppato tra settembre e ottobre è stato il più vasto degli ultimi anni e ha visto la partecipazione di settori importanti di lavoratori, in controtendenza rispetto a un decennio segnato dalla passività del movimento sindacale e dal crescente allontanamento della classe operaia dalla sinistra e dai sindacati. Gli scioperi e le manifestazioni hanno coinvolto milioni di persone e incoraggiato gli elementi più attivi dei sindacati, dando uno scossone al governo. Ma nell’insieme, hanno visto una partecipazione limitata nell’industria e nei trasporti e certamente non sono riusciti a “bloccare tutto”. Il governo è rimasto saldamente in sella, ha vinto importanti elezioni regionali ed è passato all’offensiva, apprestandosi ad approvare una finanziaria di austerità antipopolare.

Molti a sinistra hanno visto le manifestazioni e gli scioperi come un segno che la situazione politica fosse cambiata decisamente a vantaggio della classe operaia. Ad esempio, il Partito comunista rivoluzionario le ha definite “una svolta decisiva nella situazione mondiale” (rivoluzione.red, 7 ottobre). Ma è davvero così? Siamo di fronte a una radicalizzazione di massa della classe operaia? E perché, dopo due anni di conflitto, le proteste pro-Palestina sono scoppiate e si sono spente così in fretta? Perché durante l’estate i leader politici dell’Ue, come Von der Leyen, Starmer e Macron, che sostengono Israele, hanno improvvisamente iniziato a criticare Netanyahu e a parlare di riconoscere uno Stato palestinese? È importante rispondere a queste domande analizzando la situazione internazionale per capire quali devono essere i prossimi passi per i comunisti e i lavoratori più consapevoli.

Durante l’estate, le diplomazie occidentali si sono divise i compiti. Gli Stati Uniti hanno fatto la parte dei “falchi” e i governi europei quella delle “colombe” pacifiste che invocavano la pace e il “riconoscimento” della Palestina. L’obiettivo era comune: isolare la resistenza palestinese in modo che al momento decisivo si trovasse sola tra l’incudine e il martello e non avesse scelta se non la continuazione del genocidio o il cessate il fuoco alle condizioni di Trump e Netanyahu. Col governo Meloni schierato con la linea dura di Trump, in Italia il ruolo dei pacifisti lo hanno interpretato Schlein, Conte e Fratoianni, che dopo aver appoggiato Israele per due anni, hanno brevemente sventolato la bandiera palestinese per poi astenersi in Parlamento sul Piano Trump, segnalando agli Usa il loro tacito assenso.

Dopo la firma del piano Trump, Pd, 5 Stelle, Avs e i vertici della Cgil hanno fatto retromarcia, paralizzando il movimento, anche perché la sinistra radicale, pur criticando il Piano Trump, ha visto nel cessate il fuoco una vittoria della resistenza e un passo avanti. Di conseguenza, il movimento tra i lavoratori è rifluito e il governo ne ha approfittato per attaccare, multando i sindacati per lo sciopero del 3 ottobre e intimidendo gli attivisti con arresti e fogli di via. In realtà, il piano di Trump è una grave sconfitta per la resistenza palestinese e per il movimento a livello mondiale e rafforza le posizioni dei sionisti e dell’imperialismo americano. Per questo, è essenziale combattere per rigettare l’accordo e ricostruire il movimento per la Palestina su basi nuove, antimperialiste e proletarie (vedi articolo a pag. 6).

Comunque, il fatto che Schlein e Landini abbiano momentaneamente permesso lo sblocco delle proteste ha consentito alla frustrazione di migliaia di attivisti di sinistra e sindacali di trovare una valvola di sfogo. Questi attivisti mordevano il freno da due anni, vedendo la Cgil complice passiva del governo più reazionario dal dopoguerra e hanno spinto il sindacato a scioperare (una volta tanto!) insieme all’Usb. Ma anche se il movimento ha preso la forma di scioperi politici di massa, è un errore esagerarne la forza e il coinvolgimento effettivo degli operai.

La realtà è che la classe operaia è molto divisa sulla questione palestinese. È diffusa la rabbia verso i sindacati che, dopo decenni di incapacità di difendere i lavoratori, si mobilitano all’improvviso per la Palestina. I rivoluzionari filopalestinesi devono moderare l’entusiasmo illusorio di questi giorni, analizzare lucidamente la situazione e lottare per accorciare la distanza che separa la sinistra dalla classe operaia. E’ stato questo l’obiettivo del nostro intervento negli scioperi di settembre e ottobre e questo lavoro dev’essere continuato (vedi articolo a pag. 3). Non ci si può illudere che gli scioperi di ottobre abbiano già schierato la classe operaia dalla parte della Palestina. Non serve appiccicare slogan per la Palestina agli scioperi contro la finanziaria. Bisogna dimostrare concretamente agli operai (sia a quelli schierati per la Palestina, sia a quelli indifferenti) che opporsi al sionismo e all’imperialismo è essenziale per difendere sé stessi.

Bisogna smettere di fare appelli vuoti al senso di “umanità”. Bisogna invece insistere sul legame diretto che c’è tra lo sfruttamento dei lavoratori qui da noi e le azioni aggressive dell’imperialismo nel resto del mondo. Ogni invito a mobilitarsi per la Palestina dev’essere collegato a richieste concrete che migliorino le condizioni di lavoro. Coinvolgere l’insieme dei lavoratori, non solo in Italia ma a livello globale, richiede un impegno paziente e costante. Ma è l’unico modo reale per cambiare la situazione sia per il popolo palestinese che per i lavoratori di tutto il mondo.

Prepariamo la difesa!

Nei prossimi mesi gli attacchi alle condizioni di vita e di lavoro delle masse popolari aumenteranno per effetto dell’enorme pressione che l’imperialismo Usa sta esercitando sul mondo per difendere il suo dominio (vedi articolo a pag. 28). La nuova finanziaria è solo un antipasto che indica la direzione di marcia: ancora tagli a salari, sanità, scuole e pensioni per pagare il debito alle sanguisughe della finanza e dell’Ue; aumenti delle spese militari che condannano le giovani generazioni a un futuro di miseria e morte. Intanto la crisi nell’industria e le guerre commerciali portano alla chiusura di fabbriche e imprese e ci spingono verso una nuova recessione.

Usb, Cub e altri sindacati di base hanno indetto uno sciopero generale contro la manovra finanziaria per il 28 novembre. Invece di sfruttare la spinta unitaria e il sentimento combattivo degli scioperi per Gaza, Landini & Co. hanno indetto uno sciopero prenatalizio separato il 12 dicembre, mentre Uil e Cisl restano fedeli al governo. E’ importante rafforzare il più possibile questi scioperi, perché qualsiasi debolezza verrà sfruttata dal governo per bastonare i lavoratori. Ma il problema principale è che nessuno (né la Cgil né i sindacati di base) punta ad organizzare uno scontro decisivo con il governo, ma uno dei tanti scioperi simbolici e rituali che confederali e Cobas indicono ogni autunno con l’obiettivo di “mandare un segnale alla politica” e non con quello di una lotta di massa che pieghi la volontà del governo e dei capitalisti.

Per ottenere quello di cui i lavoratori hanno bisogno (e anche solo per difendere le condizioni esistenti) servono una strategia e una direzione totalmente diverse da quelle dei dirigenti del sindacalismo confederale o di base. Per trent’anni, i sindacati sono stati guidati dalla bussola della “concertazione”: la bugia per cui salvaguardando la produttività e gli interessi dei capitalisti italiani nell’economia globalizzata, appoggiando l’Ue e la Nato, saremmo andati verso la prosperità e la pace. Per questo sono stati sacrificati scala mobile, salari e pensioni, sono stati accettati precariato e delocalizzazioni e si sono importati milioni di lavoratori immigrati privi di diritti e ricattabili per tenere bassi i salari. Gli scioperi sono stati ridotti ad azioni simboliche il cui obiettivo non era vincere ma mandare un segnale al governo. I sindacati si sono svuotati di operai combattivi e riempiti di burocrati e commercialisti. Anche i sindacati di base, che hanno raccolto la frustrazione e la rabbia degli operai più coscienti, hanno replicato la strategia dei confederali e non sono stati in grado di incidere nella situazione, che resta sotto il controllo dei burocrati filo-capitalisti. Oggi sono i padroni stessi ad affossare la concertazione come un ferrovecchio. I capi sindacali invece continuano sulla stessa strada, che ha rovinato gli operai, ha spinto molti tra le braccia della reazione e ci porterà alla catastrofe.

I risultati complessivamente fallimentari dell’azione sindacale hanno spinto la maggioranza dei lavoratori alla conclusione che, se si tratta di spartirsi le briciole che le aziende sono disposte a lasciare o a cautelarsi individualmente contro licenziamenti ingiusti e prevaricazioni, forse il corporativismo e il paternalismo aziendalista (stile Cisl e Uil) e l’arte di arrangiarsi portano più risultati degli sciopericchi della Cgil o dei Cobas. Politicamente, la classe operaia è divisa: una maggioranza si illude di salvarsi affidandosi alle promesse di Meloni e Salvini di mettere “prima gli italiani”; molti altri sperano di arginare la reazione affidandosi ai liberali stile Schlein, Conte e Fratoianni (euro-atlantisti ipocriti che fanno crescere la destra!).

Nel prossimo periodo la situazione sarà pesante, con una recessione economica e attacchi crescenti. A lungo andare questo porterà ad una risposta degli operai e delle masse, ma nel frattempo è indispensabile mettersi nelle condizioni di potersi difendere e di preparare il terreno perché le lotte prendano una direzione progressista. Per questo è indispensabile costruire un polo operaio totalmente contrapposto al populismo di destra meloniano e alla sinistra liberale di Pd e Avs, che si opponga efficacemente ai piani dell’imperialismo Usa e dei suoi alleati.

Purtroppo, la maggior parte delle organizzazioni della sinistra ha una visione del mondo totalmente in contrasto con la realtà, specialmente per quanto riguarda lo stato d’animo prevalente tra gli operai. Per evitare un doloroso scontro con la realtà bisogna togliersi i paraocchi formalisti e studiare e discutere seriamente la situazione mondiale.

La sinistra radicale continua a presentarsi come l’estremo baluardo a difesa dei valori dell’imperialismo liberale contro la destra populista, invece che come una forza che aspira a guidare la classe operaia verso il socialismo. Il compito cruciale non consiste nel ripetere appelli a vuoto a “vertenze generalizzate” e “scioperi generali” ma nel battersi per una rottura politica con il liberalismo e per un chiaro orientamento a costruire un legame con la classe operaia.

Bisogna sfruttare il passo in avanti fatto con gli scioperi per Gaza da alcuni settori dell’avanguardia operaia e giovanile per consolidare dei nuclei di opposizione nei sindacati che ad ogni passo delle lotte difensive dei prossimi mesi, anche le più piccole, si battano per difendere efficacemente gli interessi dei lavoratori, mostrando il fallimento della strategia degli attuali dirigenti sindacali e mettendo al loro posto militanti che si basano sulle idee e sui metodi della lotta di classe. In questo modo, si getteranno anche le basi per la costruzione di un partito rivoluzionario che sia in grado di guidare la classe operaia verso la sua emancipazione dal capitalismo.