QR Code
https://iclfi.org/pubs/spo/2025-palestina

L’articolo seguente si basa su una presentazione di Lital Singer a una riunione del Comitato esecutivo internazionale della Lega comunista internazionale nel marzo del 2024.


Gaza è stata ridotta in macerie. Nove mesi di bombardamenti israeliani e di offensive di terra hanno massacrato innumerevoli palestinesi e ridotto ad un inferno quella che già prima era una prigione a cielo aperto. In Cisgiordania, le truppe israeliane e le squadracce sioniste cacciano i palestinesi dalle loro case e le demoliscono per costruire nuovi insediamenti ebraici. Le grandi proteste scoppiate in tutto il mondo dopo l’offensiva di Hamas del 7 ottobre non hanno fermato il genocidio e il movimento sta perdendo slancio. Da parte loro, gli Stati arabi hanno fatto solo vuoti gesti di sostegno ai palestinesi assediati. I negoziati per il cessate il fuoco sostenuti dagli Stati Uniti, le risoluzioni delle Nazioni unite e le indagini della Corte penale internazionale sono solo una foglia di fico diplomatica mentre gli americani e le altre potenze imperialiste continuano ad armare e sostenere lo Stato sionista. Nel frattempo, Israele procede verso l’obiettivo sionista di occupare tutta la Palestina, dal fiume al mare.

Mentre la catastrofe continua, la maggior parte della sinistra, facendo eco ai nazionalisti palestinesi, afferma fatuamente che la lotta marcia verso la vittoria. Uno slogan che si sente spesso è “La Palestina è quasi libera”. È vero che il consenso popolare alla causa palestinese è vastissimo, che Israele ha perso centinaia di soldati e che la sua reputazione internazionale è compromessa. Ma i palestinesi rischiano lo sterminio, non la liberazione. Per dare uno sbocco alla lotta palestinese, bisogna cominciare col dire la verità sulla situazione attuale. Lungi dal farlo, la maggior parte dei gruppi marxisti a livello internazionale esalta il movimento mentre questo si avvia alla sconfitta. Invece di lottare per cambiare rotta, si accoda ai dirigenti del movimento, che siano liberali o nazionalisti. Di conseguenza i cosiddetti marxisti, pur essendo onnipresenti nelle lotte, non hanno inciso in alcuno modo sui loro risultati.

Non è un problema nuovo. É l’ennesima replica della secolare incapacità del movimento marxista di formulare una strategia rivoluzionaria per la lotta di liberazione palestinese. Dagli zig-zag del Partito comunista di Palestina (PcP) delle origini, al sostegno di Stalin alla Nakba nel 1948, all’entusiasmo per l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) di Yasser Arafat negli anni Settanta, il bilancio del movimento marxista circa la questione palestinese è disastroso ed esso non è stato in grado di affermarsi come un serio polo contro il sionismo, il nazionalismo e l’imperialismo. È più che mai urgente trarre le lezioni di questi fallimenti, proporre una via per sconfiggere lo Stato sionista e aprire la strada alla liberazione e all’emancipazione sociale palestinese.

Questo è l’obiettivo del presente documento. Sulla base di un’analisi materialista della questione palestinese, spiega le cause dei fallimenti del passato e propone una strada reale per vincere.

La natura della questione palestinese

Per capire la questione palestinese bisogna esaminarne le origini e lo sviluppo. I britannici sottrassero il territorio della Palestina all’Impero Ottomano in decadenza durante la Prima guerra mondiale. All’epoca la popolazione ebraica era una piccola minoranza insediata da tempo nell’area. Tuttavia, con la Dichiarazione Balfour del 1917, gli inglesi diedero il loro sostegno al progetto coloniale sionista di ritagliare una “patria” ebraica in questo Paese arabo. Si trattava di un cinico stratagemma per alimentare un conflitto nazionale nella regione e per meglio affermare il dominio britannico. I coloni ebrei europei emigrarono in Palestina, acquistando terre dai grandi proprietari terrieri arabi e sfrattando masse di contadini. Poiché per sopravvivere il sionismo necessitava del sostegno diretto dell’imperialismo (prima di quello britannico e poi di quello americano), la colonia ebraica si sviluppò come una fortezza della reazione imperialista diretta contro il resto del Medio Oriente.

Fin dall’inizio, il sionismo è stato una risposta nazionalista reazionaria all’oppressione ebraica, basata sull’espropriazione e sull’espulsione del popolo palestinese dalla sua Patria. I sionisti andarono in Palestina guidati dagli slogan della “conquista del lavoro” e della “conquista della terra”, ben sapendo che il lavoro e la terra dovevano essere conquistati cacciando la popolazione araba. I sionisti di destra, un tempo noti come “revisionisti”, sono sempre stati coerenti con questo obiettivo. Il sionismo liberale, noto in passato come sionismo “socialista” o laburista, è sempre stato ipocrita, cercando di conciliare i nobili principi del “socialismo” e della democrazia liberale con la logica genocida del progetto sionista.

Naturalmente, l’espansione sionista nella prima metà del Ventesimo secolo provocò la crescente reazione della popolazione araba, che sfociò in ribellioni sempre più violente. È attraverso queste lotte che i palestinesi svilupparono una coscienza nazionale distinta da quella della popolazione araba nel resto della regione. All’inizio, i capi della lotta palestinese appartenevano a strati delle élite arabe tradizionali, i cui interessi erano direttamente minacciati dai sionisti. Ma questi strati erano anche legati ai britannici, che ne garantivano la posizione privilegiata rispetto alle masse arabe. A partire dalle prime élite tradizionali sino ai moderni nazionalisti, la direzione del movimento palestinese ha sempre rappresentato gli interessi di uno strato superiore costretto a scontrarsi con il progetto sionista ma incapace, per la sua posizione di classe, di sconfiggere l’imperialismo e il sionismo.

Il brutale sfruttamento dei palestinesi e la loro eroica resistenza li pongono all’avanguardia della lotta contro l’imperialismo in Medio Oriente. Tuttavia, le masse arabe, turche e iraniane sono divise, separate in Stati rivali governati da una cabala di monarchi, chierici e dittatori che antepongono i loro interessi reazionari alla lotta contro l’imperialismo e il sionismo. Il problema storico del movimento di liberazione palestinese è stato quello di cercare il sostegno di questi strati superiori reazionari a scapito dell’unione dell’intera popolazione lavoratrice mediorientale nella lotta contro i propri governanti e i contro i signori imperialisti. Questo problema è insito nel nazionalismo, che vede i conflitti esclusivamente attraverso la lente dell’antagonismo nazionale. Così, i nazionalisti palestinesi possono pensare solo di combattere l’intera nazione israeliana (una battaglia che non possono vincere) facendo affidamento sui regimi arabi, su cui non possono contare, e manovrando tra le grandi potenze che beneficiano direttamente dell’oppressione palestinese.

Il nocciolo della questione palestinese è che due nazioni rivendicano lo stesso territorio e nessuna ha un altro posto dove andare. Le ingiustizie storiche che si sono abbattute sui palestinesi non possono essere sanate con la creazione di un nuovo Stato palestinese che si insedi su una piccola parte della terra storica della Palestina, sotto la minaccia costante del ben più potente Stato sionista. Né si può ottenere scontrandosi con l’intera nazione israeliana, che sicuramente lotterà fino alla morte per la propria esistenza nazionale. Lo Stato sionista dev’essere invece distrutto dall’interno, spezzando i vincoli che legano le masse lavoratrici al progetto sionista. Questo è possibile grazie agli interessi di classe dei lavoratori in Israele, che sono anch’essi sfruttati dai governanti sionisti e la cui condizione è degradata dall’oppressione dei palestinesi e dal loro ruolo di burattini degli imperialisti nella regione. L’emancipazione della classe operaia israeliana passa attraverso la liberazione nazionale della Palestina. Come scrisse Engels, nessuna nazione può essere libera se ne opprime un’altra.

Il cuore della questione palestinese è un problema nazionale che non può essere risolto in un quadro strettamente nazionale. Ogni passo verso la libertà palestinese si scontra con l’intero ordine capitalistico in Medio Oriente. Perciò è chiaro che la lotta di liberazione della Palestina richiede una direzione rivoluzionaria che sappia fondere la causa nazionale con l’emancipazione sociale della classe operaia in tutta la regione. In altre parole: il programma trotskista della rivoluzione permanente. È sulla base di questo approccio che cercheremo di tracciare un bilancio del movimento marxista riguardo la questione palestinese.

La questione ebraica: comunismo contro sionismo

Il movimento marxista ha una solida base sulla questione nazionale ed ebraica. In Il marxismo e la questione ebraica (Samonà e Savelli, 1972) Abram Léon fornì una concezione materialista dell’oppressione degli ebrei. Spiegò come, sotto il feudalesimo, gli ebrei svolgessero una speciale funzione economica come usurai che non fu più necessaria con il capitalismo. Le rivoluzioni borghesi dell’Europa occidentale aprirono le porte dei ghetti e l’assimilazione degli ebrei sembrò essere un fatto compiuto.

Ma nell’Europa orientale, dopo che il crollo della società feudale ebbe tolto agli ebrei le basi materiali della loro esistenza, non vi fu un’industrializzazione diffusa che permettesse a questi milioni di intermediari, ormai superflui, di integrarsi nel proletariato. Soprattutto nella Zona di insediamento, la regione occidentale dell’Impero russo, la vita degli ebrei consisteva nella miseria degli shtetl (i villaggi ebraici) e in continui pogrom. Una minoranza della popolazione ebraica divenne capitalista o proletaria. Un numero maggiore emigrò, interrompendo la tendenza all’assimilazione nei Paesi occidentali. La maggioranza invece rimase nella misera condizione di piccoli commercianti “fra l’incudine del feudalesimo decadente ed il martello del capitalismo in putrefazione”, come scrisse Léon.

La Rivoluzione bolscevica del 1917 liberò gli ebrei dell’Impero russo, attirando milioni di loro sotto la bandiera del comunismo e allontanandoli dal sionismo. Gli ebrei intravidero un futuro nella distruzione del vecchio ordine economico in cui non c’era posto per loro e nella costruzione di una nuova società socialista. Comunismo e sionismo erano naturalmente contrapposti e l’Internazionale comunista (Ic) delle origini combatté contro l’influenza di quest’ultimo. Come spiegano le “Tesi sulla questione nazionale e coloniale” del Secondo congresso dell’Internazionale comunista del 1920:

“Un esempio lampante dell’inganno perpetrato ai danni delle masse lavoratrici di una nazione oppressa ad opera degli sforzi congiunti dell’imperialismo dell’Intesa e della borghesia di quella stessa nazione, è fornito dall’impresa palestinese dei Sionisti (e dal Sionismo nel suo complesso, che, con il pretesto di creare uno Stato ebraico in Palestina, di fatto abbandona allo sfruttamento da parte dell’Inghilterra i lavoratori arabi che vivono in Palestina, Stato in cui i lavoratori ebrei non costituiscono che un’infima minoranza).” (citato in Storia dell’Internazionale comunista attraverso i documenti ufficiali, a cura di Jane Degras, Feltrinelli, 1975)

Di fronte alla richiesta di Poale Zion (Lavoratori di Sion) di aderire al Comintern, il Comitato esecutivo dell’Ic scrisse in una lettera dell’agosto 1921 che “nel vostro movimento vi sono delle tendenze che sono incompatibili in linea di principio con quelle dell’Internazionale comunista”. L’Ic si opponeva all’idea che l’insediamento degli ebrei in Palestina sarebbe stato liberatorio e sottolineava che “la completa liquidazione di questa ideologia è la condizione più importante che ci sentiamo costretti a stipulare”. (Bulletin of the Executive Committee of the Communist International n. 2, 20 settembre 1921). Inoltre, chiedeva che il Poale Zion si opponesse all’emigrazione ebraica in Palestina e cambiasse il nome in Partito comunista di Palestina, per dimostrare la volontà di rappresentare non solo i lavoratori ebrei ma anche i lavoratori arabi. Quando la maggioranza di Poale Zion rifiutò di accettare queste condizioni, il Comintern chiarì:

“L’Ic era disposta a fare importanti concessioni nella sfera della propaganda e dell’organizzazione per facilitare lo sviluppo della sezione arretrata del proletariato ebraico verso il comunismo (…) L’unico atteggiamento possibile dei comunisti nei confronti della Federazione Poale Zion, dopo il suo rifiuto delle condizioni di ammissione, è di completa ostilità”. (“Ai comunisti di tutti i Paesi! Al proletariato ebreo!” International Press Correspondence, 1 agosto 1922)

Il Partito comunista di Palestina: tra sionismo e nazionalismo arabo

Quando il Partito comunista di Palestina fu costituito e ammesso al Comintern nel 1924, gli stalinisti avevano preso il potere politico in Unione Sovietica e l’Ic era in via di degenerazione. Da strumento della rivoluzione mondiale, si stava trasformando in un’appendice della politica estera stalinista, basata sulla prospettiva reazionaria di costruire il socialismo in un solo Paese in coesistenza pacifica con l’imperialismo. Pertanto, gli interventi dell’Ic nel PcP non erano guidati da ciò che serviva per costruire un partito rivoluzionario.

Alla sua fondazione, il PcP si oppose formalmente al sionismo, ma si trattò di una rottura solo parziale. Il PcP era nato dal Poale Zion e i suoi membri continuavano a identificarsi con il sionismo di sinistra. Era composto principalmente da coloni ebrei che sapevano poco o nulla della Palestina e dei suoi abitanti. I suoi militanti erano molto instabili: molti giovani sionisti se ne andavano dalla Palestina non appena conquistati al comunismo per fuggire dall’“inferno sionista”.

Il PcP cercò di unire arabi ed ebrei, ma senza opporsi frontalmente al sionismo. Ad esempio, un volantino del Primo Maggio 1921 pubblicato dal precursore del PcP invitava i lavoratori arabi a unirsi alla manifestazione dei comunisti e affermava che i lavoratori ebrei erano giunti in Palestina come “alleati nella lotta comune contro i capitalisti arabi ed ebrei”. In un contesto in cui i sionisti scacciavano i contadini arabi dalle loro terre e gli operai arabi dai loro posti di lavoro, l’appello ovviamente cadde nel vuoto. L’approccio del PcP equivaleva implicitamente a chiedere alle masse arabe di rinunciare alle proprie legittime aspirazioni nazionali come condizione preliminare per l’unità; dovevano accantonare la lotta contro il sionismo per “unirsi” contro i padroni.

Questa posizione era completamente opposta all’approccio leninista alla questione nazionale. Come Lenin spiegò in “La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodecisione” (1916):

“Il proletariato delle nazioni dominanti non può limitarsi a frasi generiche, stereotipate, ripetute da ogni borghese pacifista contro le annessioni e per l’uguaglianza di diritti delle nazioni in generale (…) Il proletariato deve esigere la libertà di separazione politica delle colonie e delle nazioni oppresse dalla ‘sua’ nazione. Nel caso contrario l’internazionalismo del proletariato resterà vuoto e verbale; tra gli operai della nazione dominante e gli operai della nazione oppressa non sarà possibile né la fiducia, né la solidarietà di classe”.

Sebbene in Palestina non si trattasse di secessione politica, l’osservazione di Lenin conserva tutta la sua validità. La responsabilità dei comunisti ebrei in Palestina era e rimane innanzitutto quella di opporsi all’oppressione nazionale dei palestinesi. Solo su questa base si può iniziare a parlare di unità di classe.

È proprio questa la lezione che molti cosiddetti comunisti ripudiano oggi quando lanciano appelli all’unità che non si basano sulla liberazione degli oppressi. Da questo punto di vista spicca Lutte Ouvrière (Lo) che sfila orgogliosamente per le strade di Parigi con striscioni che dicono: “Contro l’imperialismo e le sue manovre, contro Netanyahu e Hamas, proletari di Francia, Palestina, Israele, uniamoci!” Lo ripetiamo: l’unità potrà realizzarsi solo attraverso la liberazione nazionale della Palestina, la causa che Lutte Ouvrière rigetta. Non sorprende pertanto che Lutte Ouvrière glorifichi il PcP dei primi anni.

Dalla metà degli anni Venti alla metà degli anni Trenta, l’Ic intervenne per costringere il PcP a orientarsi verso la maggioranza araba. Anche si trattava di una cosa assolutamente necessaria, gli stalinisti la fecero con metodi burocratici al servizio di obiettivi riformisti. Alla fine l’Ic chiese ai militanti del PcP di iscriversi di nuovo al partito sulla base dell’impegno a sostenerne l’arabizzazione e sostituì la maggior parte dei funzionari ebrei con degli arabi. Sul piano politico, la svolta oscillò tra le condanne generiche e sterili dei capi arabi, etichettati come “puro strumento della reazione”, e l’accodamento completo a questi stessi capi (citato da Joel Beinen, “Il Partito comunista di Palestina 1919-1948”, MERIP Reports, marzo 1977).

I cambiamenti nel partito coincisero con l’ascesa al potere di Hitler in Germania, che spinse un’ondata di immigrati ebrei tedeschi verso la Palestina. Dal 1933 al 1936, arrivarono in Palestina più di 130 mila ebrei e l’Yishuv, il corpo generale dei coloni ebrei, crebbe di circa l’80 percento. Questi sviluppi fecero aumentare di molto le tensioni tra ebrei e arabi, che culminarono nella Grande rivolta araba del 1936-‘39, un’agitazione che durò tre anni passando dalle proteste e dalle rivolte contadine allo sciopero generale e all’insurrezione armata.

I comunisti palestinesi sostennero acriticamente la rivolta, inizialmente prestando la propria autorità al Mufti di Gerusalemme, Amin al-Husseini, che emerse alla sua testa. Il PcP lo esaltò come un “elemento dell’ala antimperialista più estrema del movimento nazionalista” (citato da Ghassan Kanafani, La rivolta del 1936-39 in Palestina, New York: Committee for a Democratic Palestine, 1972). Dire che si trattava di una finzione è un eufemismo. Capo di una ricca famiglia di proprietari terrieri, al-Husseini era stato nominato alla sua carica nel 1921 dall’Alto commissario britannico, che lo considerava essenziale per mantenere la stabilità in Palestina. Pur essendo fedele all’Impero britannico, al-Husseini considerava il progetto sionista come una minaccia per le élite arabe da lui rappresentate e questo lo spinse inizialmente a mettersi alla testa del movimento. Ma con lo sviluppo della rivolta, gli operai e i contadini insorti cominciarono a minacciare gli interessi dei grandi proprietari terrieri, classe alla quale egli apparteneva. Di conseguenza, il Mufti fece un accordo con gli inglesi per porre fine allo sciopero generale e li aiutò a soffocare la prima fase della rivolta araba.

Fu giustissimo che il Pcp appoggiasse la rivolta e combattesse a fianco del Mufti. Ma doveva farlo in modo critico, mostrando alle masse a ogni passo come il Mufti ostacolasse la lotta, anche con il suo antisemitismo che impediva la conquista dei lavoratori ebrei. Invece, il PcP appoggiò questo leader clericale, che non solo portò il movimento alla sconfitta, ma fu letteralmente responsabile dell’uccisione dei comunisti. In “Il Partito comunista di Palestina 1919-1948”, Joel Beinen mostra come, liquidandosi nel movimento nazionalista, il Pcp si spinse a chiedere ai suoi militanti ebrei di partecipare ad azioni terroristiche contro la comunità ebraica.

Non sorprende che la politica del PcP fosse impopolare tra la sua base ebraica, dilaniando il partito. Riflettendo le profonde divisioni nazionali all’interno del partito, il Comitato centrale del PcP creò una nuova struttura chiamata Sezione ebraica. Questa sezione era critica nei confronti del sostegno troppo zelante alla rivolta araba e si adattò sempre più al sionismo. Immaginandosi dei “circoli progressisti all’interno del sionismo”, chiese la formazione di un fronte popolare con gruppi e partiti sionisti. Alla fine, il Comitato centrale a guida araba chiese lo scioglimento della Sezione ebraica. Questa richiesta fu contrastata e portò a una scissione.

La soppressione della rivolta del 1936-‘39 consolidò le basi militari ed economiche per uno Stato sionista separato. L’imperialismo britannico utilizzò l’Haganah, una milizia sionista di diecimila uomini, per sedare la rivolta. Quasi il 10 percento dei maschi arabi adulti di età compresa tra i 20 e i 60 anni furono uccisi, feriti, imprigionati o esiliati, compreso il Mufti e quasi tutti i capi nazionalisti palestinesi. Venne anche costruita una rete di strade che univa le principali colonie sioniste e che in seguito divenne una parte fondamentale dell’infrastruttura dell’economia sionista. Venne asfaltata la principale strada tra Haifa e Tel Aviv, fu ampliato e approfondito il porto di Haifa e venne costruito un porto a Tel Aviv, che in seguito soppiantò il porto arabo di Giaffa. Inoltre, i sionisti monopolizzarono i contratti per il rifornimento delle truppe britanniche che avevano iniziato a riversarsi in Palestina con l’inizio della Seconda guerra mondiale.

Questo nuovo conflitto accelerò il corso catastrofico del PcP, in particolare perché, seguendo gli ordini di Stalin, incitava sia i palestinesi che gli ebrei ad unirsi agli inglesi nella guerra “democratica” contro la Germania fascista. In una polemica con il piccolo gruppo di trotskisti in Palestina, scritta poco prima della guerra, Leon Trotsky insistette sull’importanza di opporsi a entrambi i campi imperialisti. Scrisse:

“Si deve rinunciare al disfattismo rivoluzionario nei confronti dei Paesi non fascisti? Qui sta il succo della questione; su questo tema si regge o crolla l’internazionalismo rivoluzionario. Per esempio, i 360 milioni di indiani dovrebbero rinunciare a qualsiasi tentativo di utilizzare la guerra per la propria liberazione? L’insurrezione degli indiani nel bel mezzo della guerra contribuirebbe senza dubbio alla sconfitta della Gran Bretagna. Nel caso di una rivolta in India, i lavoratori britannici dovrebbero sostenerla? O, al contrario, hanno il dovere di tener buoni gli indiani e abbindolarli in nome della lotta vittoriosa dell’imperialismo britannico ‘contro il fascismo’? Che strada dobbiamo seguire?”. (“Un passo verso il socialpatriottismo”, marzo 1939)

Era proprio questo il problema che divideva il PcP. Infatti, sostenere l’imperialismo britannico era impopolare tra i militanti arabi. Anche se non si opponevano al sostegno degli stalinisti all’imperialismo britannico nella guerra, non tolleravano che il PcP reclutasse arabi per l’odiato esercito britannico. Nel giro di pochi anni, questa divisione spinse i militanti arabi a uscire dal PcP e a fondare un’organizzazione di sinistra chiamata Lega di liberazione nazionale. Il PcP si ridusse ad avere una base esclusivamente ebraica. Quest’ultima capitolazione pose le basi quello che sarebbe diventato il più grande tradimento del PcP: il sostegno ad Israele nella Nakba.

Il sostegno alla Nakba: il grande tradimento di Stalin

Alla fine della Seconda guerra mondiale, l’impero britannico stava crollando sotto il peso dello sforzo bellico e del costo di mantenere un impero coloniale. Questo portò al ritiro della Gran Bretagna dalla Palestina e alla cessione dell’autorità alle Nazioni unite. Nel 1947, l’Assemblea generale delle Nazioni unite adottò un piano di spartizione della Palestina tra Stati arabi e israeliani. A questi ultimi furono assegnate ampie aree, molte delle quali abitate da una popolazione a maggioranza araba.

Ai sionisti non bastava. Non appena le Nazioni unite ebbero votato la spartizione della Palestina, i sionisti lanciarono un’offensiva che portò alla cacciata di oltre 700 mila palestinesi e alla conquista di quasi il 78 percento della Palestina storica. Intere città furono svuotate dei palestinesi e i loro frutteti, industrie, trasporti, fabbriche, case e altri beni vennero confiscati. A questa pulizia etnica di massa, che portò alla nascita di Israele, i palestinesi diedero il nome di Nakba: la catastrofe.

L’iniziale offensiva sionista si riverberò in tutto il mondo arabo. Nel suo libro La guerra dei Cent’anni contro la Palestina (New York: Henry Holt and Company, 2020), Rashid Khalidi spiega come si svolse la tragedia:

“Nella prima fase della Nakba, prima del 15 maggio 1948, un modello di pulizia etnica portò all’espulsione e alla fuga in preda al panico di circa 300 mila palestinesi e alla distruzione di molti dei principali centri urbani, economici, politici, civili e culturali della maggioranza araba. La seconda fase seguì dopo il 15 maggio, quando il nuovo esercito israeliano sconfisse gli eserciti arabi che erano entrati in guerra. I governi arabi decisero di intervenire militarmente con grande ritardo, sotto la forte pressione dell’opinione pubblica araba, sconvolta dalla caduta delle città e dei villaggi palestinesi uno dopo l’altro e dall’arrivo di ondate di profughi indigenti nelle capitali circostanti”.

Come ricorda Khalidi, la Lega araba, una coalizione composta principalmente da Egitto, Transgiordania, Iraq e Siria, intervenne contro Israele. Il re di Transgiordania, Abdullah I, svolse un ruolo fondamentale nel conflitto. Dopo aver inizialmente cospirato con gli inglesi e i sionisti per impedire la formazione di uno Stato palestinese indipendente e annettersi parte del suo territorio, si vide costretto a scontrarsi con Israele e a schierare il contingente militare più importante della coalizione. Il suo ruolo infido ebbe un peso notevole nella sconfitta della coalizione, che segnò il destino dei palestinesi.

Ma Re Abdullah non aveva mai detto di essere un marxista rivoluzionario. Josef Stalin, invece, tradì la causa palestinese in nome del comunismo e dell’Unione Sovietica. Fu Stalin, insieme al presidente americano Truman, a far approvare la risoluzione sulla spartizione all’Onu. L’Unione Sovietica fu il primo Paese a riconoscere formalmente lo Stato di Israele. Abba Eban, futuro ministro degli Esteri israeliano, spiegò come il riconoscimento sovietico fosse “un’occasione incredibile; in un attimo tutti i nostri piani di discussione all’Onu furono stravolti”. Oltre ai tradimenti diplomatici, dal 1947 al 1949 il blocco sovietico inviò armi all’Haganah attraverso la Cecoslovacchia, fornendo attrezzature cruciali alle milizie sioniste scatenate contro le città e i villaggi palestinesi.

Il sostegno dell’Unione Sovietica alla Nakba è stato un tradimento di proporzioni storiche, anche perché l’Urss era vista in tutto il mondo come la guida della classe operaia e della rivoluzione coloniale. Ovviamente i vari partiti comunisti e le organizzazioni staliniste che oggi partecipano alle manifestazioni palestinesi insabbiano o negano questo triste primato. Il Partito comunista di Grecia (Kke) ad esempio sorvola su questo crimine, scrivendo che “il massacro degli ebrei da parte dei nazisti e l’antisemitismo promosso dalle classi borghesi prima della Seconda Guerra Mondiale in molti Paesi capitalisti spinsero l’Urss e il movimento operaio internazionale ad accettare la creazione dello Stato di Israele accanto allo Stato di Palestina” (“Brevi risposte alle attuali domande ideologico-politiche riguardanti l’attacco e il massacro israeliano contro il popolo palestinese nella Striscia di Gaza”, inter.kke.gr, 20 novembre 2023).

I trotskisti e la Nakba: sionismo e centrismo

Oltre al Partito comunista, in Palestina esisteva anche un piccolo nucleo di trotskisti. Provenienti per lo più da ambienti sionisti, da cui non si staccarono mai completamente, alla fine degli anni Trenta si raccolsero nella Lega comunista rivoluzionaria (Lcr). Tony Cliff, un dirigente della Lcr, proveniva da un’importante famiglia sionista della Palestina occupata dagli inglesi e in gioventù aveva fatto parte di un’organizzazione sionista operaia. Negli anni Cinquanta, Cliff viveva in Gran Bretagna e tifava per il nazionalismo arabo come dirigente del Socialist review group, precursore del Socialist workers party. Ma nel 1938, Cliff cantava un’altra canzone: “È evidente che gli inglesi sanno bene come sfruttare le esigenze elementari del lavoratore ebreo, ossia l’immigrazione e la colonizzazione, nessuna delle quali contraddice le reali necessità delle masse arabe” (“La politica britannica in Palestina”, The New International, ottobre 1938, nostra sottolineatura). Inutile dire che l’immigrazione di massa di ebrei in Palestina e la sua colonizzazione erano assolutamente contrapposte ai reali bisogni delle masse arabe. La gravità di queste parole è anche più evidente se si considera che furono scritte nel bel mezzo della Grande rivolta araba contro la colonizzazione sionista.

Queste opinioni non erano unanimi nel movimento trotskista. Cliff fu aspramente attaccato dal gruppo sudafricano Spark, che affermò:

“I sostenitori critici ‘di sinistra’ del sionismo, i sedicenti socialisti e comunisti che amano parlare di Marx e di dialettica, ma il cui socialismo è solo di facciata, sono sconvolti dal fatto che l’ira degli arabi si rivolge non solo contro l’imperialismo britannico, ma anche contro gli ebrei in Palestina. Da liberali sono incapaci di capire perché gli arabi palestinesi, che vedono di fronte a sé un fronte unico sionista che accomuna la borghesia e il movimento operaio, un fronte unico ostile, alleato e sostenitore del loro nemico, l’imperialismo britannico, non debbano giungere alla conclusione che tutti gli ebrei in Palestina sono dei sionisti e quindi dei nemici. É una conclusione senz’altro sbagliata, ma dove sono i segni che possono convincere gli arabi del contrario?” (“Il sionismo e la lotta araba”, novembre 1938, riprodotto in The New International, febbraio 1939)

Era una critica giusta, ma non divenne mai parte integrante della pratica e del programma dei trotskisti in Palestina.

Le difficoltà del movimento trotskista internazionale nello sviluppare un programma corretto per la questione della Palestina furono in gran parte causate dalla sua decimazione durante la guerra mondiale. Trotsky fu assassinato nel 1940 su ordine di Stalin e molti dei quadri più esperti della Quarta internazionale, come Abram Leon, morirono per mano degli stalinisti o dei nazisti. Il movimento trotskista uscì dalla guerra indebolito e disorientato dai profondi cambiamenti in atto nel mondo. Riguardo alla Palestina e alla questione ebraica, questo movimento indebolito subì forti pressioni per conciliare il sionismo, sulla scia dell’Olocausto e con centinaia di migliaia di sopravvissuti a cui era stato negato l’ingresso nei Paesi imperialisti e languivano nei campi profughi. Queste pressioni furono aggravate dal fatto che gli stalinisti, i socialdemocratici e la maggior parte del movimento sindacale negli Stati Uniti e in Europa appoggiavano la creazione di Israele.

Il disorientamento dei trotskisti si riflette nel “Progetto di tesi sulla questione ebraica oggi” del 1947, scritto da Ernest Mandel, un dirigente della Quarta Internazionale. Le tesi contenevano molti punti corretti, come quello per cui:

“La Quarta Internazionale deve dissuadere i profughi ebrei dall’immigrazione in Palestina; deve sforzarsi, nel quadro di un movimento di solidarietà mondiale, di far aprire loro le porte di altri Paesi e deve avvertire che la Palestina è per loro una terribile trappola; e nella sua propaganda concreta sulla questione dell’immigrazione ebraica, deve partire dalla sovranità della popolazione araba.” (Fourth International, gennaio-febbraio 1948)

Ma le Tesi parlavano della formazione di uno Stato sionista come di un’utopia, anche se le fondamenta militari ed economiche di Israele erano già state create. Inoltre, facevano appello alle masse arabe ad utilizzare gli attacchi contro gli inglesi per “porre concretamente la questione del ritiro delle truppe britanniche”. Ma questi attacchi venivano condotti dalla milizia ultra-sionista Irgun contro le restrizioni all’immigrazione ebraica! Le Tesi negavano che gli inglesi si stessero effettivamente ritirando dalla Palestina e che il terrorismo sionista fosse un precursore della cacciata in massa dei palestinesi.

Riguardo alla Nakba stessa, la capitolazione più palese al sionismo venne dal Workers Party (Wp) di Max Shachtman negli Stati Uniti. Il Wp appoggiò la fondazione di Israele, affermando che la sua guerra contro i Paesi arabi era una guerra di liberazione nazionale. Lodando la dichiarazione di indipendenza di Israele, condannò l’intervento degli Stati arabi:

“Ad attaccare le difese [di Israele] e a minacciare la sua indipendenza è arrivato l’assalto reazionario di alcuni dei troni e delle dinastie più arretrate e reazionarie del mondo, gli oppressori semi-feudali del popolo arabo. L’invasione reazionaria è stata lanciata con un solo scopo: privare il popolo israeliano del suo diritto all’autodeterminazione”. (Hal Draper, “Come difendere Israele”, The New International, luglio 1948).

Queste politiche sioniste reazionarie furono il risultato diretto della scissione del Wp dal Socialist Workers Party (Swp) trotskista americano, avvenuta nel 1940 per il rifiuto di Shachtman e della sua cricca di difendere l’Unione Sovietica. Questa posizione rifletteva la pressione dell’opinione pubblica piccolo-borghese, specialmente nell’ambiente socialista ebraico di New York.

Da parte sua la Quarta internazionale perlomeno si oppose al piano di spartizione della Palestina voluto dalle Nazioni unite. Il Revolutionary Communist Party britannico, ad esempio, scrisse: “La spartizione della Palestina è reazionaria sotto ogni aspetto: né gli ebrei né le masse arabe hanno nulla da guadagnarci” (Socialist Appeal, dicembre 1947). Da parte sua, il Swp americano pubblicò un editoriale che affermava giustamente che: “Gli ebrei non possono ritagliarsi uno Stato a spese dei diritti nazionali dei popoli arabi. Questa non è autodeterminazione, ma conquista del territorio di un altro popolo” (The Militant, 31 maggio 1948, nostre sottolineature).

Tuttavia, nella guerra tra i sionisti e la Lega araba, la Quarta internazionale rifiutò di schierarsi dalla parte degli arabi, condannandoli come altrettanto reazionari dei sionisti. Lo stesso editoriale del Swp affermava:

“I governanti arabi non stanno conducendo una lotta progressiva per l’indipendenza nazionale contro l’imperialismo. Con la loro guerra antiebraica, mirano a deviare la lotta contro l’imperialismo e ad usare le aspirazioni delle masse arabe alla liberazione nazionale per soffocare l’opposizione sociale al loro dominio tirannico”.

In Palestina, la Rcl prese la stessa posizione in un editoriale intitolato “Contro la corrente”, scrivendo: “Noi diciamo ai lavoratori ebrei e arabi: il nemico è nel vostro stesso campo!” (Fourth International, maggio 1948).

Tutto ciò è assolutamente sbagliato. La guerra del 1948 fu una guerra nazionale di espansione dei sionisti a danno della popolazione araba palestinese. Nonostante la loro natura reazionaria e le loro manovre, il re Abdullah e gli altri governanti arabi combattevano oggettivamente contro la pulizia etnica dei palestinesi. È semplicemente falso sostenere che la vittoria della Lega araba sarebbe stata altrettanto reazionaria di quella di Israele. Per i palestinesi, la vittoria araba avrebbe significato rimanere nella loro terra storica. Se la guerra si fosse in qualche modo trasformata in una guerra di oppressione contro la popolazione ebraica, il suo carattere sarebbe cambiato e avrebbe posto dei compiti diversi. Ma non avvenne nulla di tutto ciò.

Alcuni, allora come oggi, sostengono che i legami tra la Lega araba e l’imperialismo britannico erano la prova che entrambe le parti in guerra erano reazionarie. È vero: sia Israele che la parte araba erano sostenuti, in qualche modo, dalle diverse potenze imperialiste. Ma è una questione secondaria. La guerra non riguardava la competizione delle aspirazioni imperialiste nella regione, ma la cacciata dei palestinesi dalla loro terra. La guerra del 1948 e tutte quelle successive (1967, 1973, 1982, ecc.) furono guerre di espansione sionista. L’unica posizione corretta per i marxisti in questi conflitti era quella di schierarsi con la Palestina e gli arabi.

Il rifiuto di farlo da parte dei trotskisti nel 1948 fu una capitolazione al sionismo di fronte alla Nakba, un vero e proprio tradimento. Eppure quasi tutti i trotskisti contemporanei continuano a presentarlo come un esempio da seguire, rendendo impossibile oggigiorno un intervento rivoluzionario. Lo ha fatto (sinora) la nostra organizzazione. Lo fanno l’Internazionale comunista rivoluzionaria, le due Bolshevik Tendency, la Lega per la quarta internazionale e la Fracción trotskista/Left voice. Nel dicembre del 2023, Left voice ha scritto: “Pensiamo che i trotskisti ebreo-palestinesi alla fine degli anni Quaranta siano stati gli unici ad avere una visione realistica per risolvere il conflitto” (“La farsa della ‘soluzione a due Stati’ e la prospettiva socialista per la Palestina”. leftvoice.org, 16 dicembre 2023). In che modo prendere una posizione di disfattismo da entrambi i lati di fronte alla Nakba abbia contribuito a risolvere il conflitto, lo lasciamo spiegare a Left voice.

La Linea verde

I confini stabiliti in seguito alla vittoria di Israele nella guerra del 1948 sono chiamati Linea verde e sono stati riconosciuti dalla Risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite dopo la guerra del 1967. Questa risoluzione è diventata una pietra miliare del conflitto arabo-israeliano, costituendo la base per i trattati di pace di Israele con l’Egitto (1979) e con la Giordania (1994), per gli accordi di Oslo del 1993 e per tutte le discussioni sulla soluzione dei due Stati. Ecco cosa ha detto correttamente Nayef Hawatmeh, leader del Fronte democratico per la liberazione della Palestina, a proposito della Risoluzione 242:

“Accettare la risoluzione implica direttamente:

(1) l’approvazione della conquista e della perdita di territorio che hanno colpito il popolo palestinese nel 1948.

(2) La liquidazione del movimento di resistenza palestinese per salvaguardare le frontiere dello Stato di Israele.

(3) Il protrarsi dell’esistenza di uno Stato espansionista strettamente legato all’imperialismo americano, in virtù dell’interesse comune delle due parti affinché Israele continui a esistere come strumento di espansione e di repressione del movimento di liberazione nazionale in Medio Oriente.”

(“Una soluzione democratica per il problema della Palestina”, 12 gennaio 1970, riprodotto nell’opuscolo del Fdplp, Il Programma di agosto e una soluzione democratica, senza data).

Da ciò dovrebbe essere chiaro che non si può parlare di liberazione della Palestina sulla base della Linea verde e della Risoluzione 242. Ma i liberali filopalestinesi come il movimento Bds, i sionisti liberali come Norman Finkelstein e il gruppo Gush Shalom, e i riformisti come il Kke, difendono la Linea verde come confine legittimo di Israele. Questa tesi serve a creare una falsa distinzione tra la terra rubata ai palestinesi nella guerra del 1948 e quella rubata nelle espansioni successive. Così si considerano “territori occupati” solo quelli invasi dopo il 1967. È facile per i ricchi sionisti liberali di Tel Aviv parlare con disprezzo degli ebrei più poveri che vivono in Cisgiordania come di “coloni”. Ma la verità è che l’intero Stato di Israele è una colonia costruita sull’espropriazione dei palestinesi. I 700 mila coloni in Cisgiordania, alcuni dei quali vivono lì da decenni, non sono fondamentalmente diversi da quelli che vivono nel resto di Israele.

Opporsi soltanto all’espansione di Israele dopo il 1967 farà anche sentire in pace con la propria coscienza i sionisti liberali da Tel Aviv a New York, ma ha come obiettivo quello di illudere che possa esistere una mezza soluzione riformista della questione palestinese, in base alla quale gli israeliani vedranno la luce e si ritireranno dietro la Linea verde, lasciando che i palestinesi costruiscano un nuovo Stato sui territori rimanenti. Chi ci crede non capisce nulla del progetto sionista, i cui fautori lotteranno fino alla morte per tenersi ogni centimetro di “terra santa” rubato ai palestinesi.

Rivendicare la “fine dell’occupazione” e il “ritiro delle truppe e dei coloni israeliani dai territori occupati” (cioè dai soli territori posti oltre la Linea verde) significa accettare implicitamente la legittimità dello Stato di Israele. Ovviamente bisogna opporre una resistenza militare all’ulteriore invasione della terra palestinese da parte dei coloni fanatici e in generale degli occupanti. Ma credere che il problema dei 700 mila coloni che occupano la Cisgiordania possa essere risolto senza distruggere lo Stato d’Israele è un’illusione pericolosa, che i sionisti possono sfruttare per mettere in ginocchio il movimento palestinese.

La tradizione spartachista

Qui dobbiamo affrontare il retaggio che infanga la nostra tendenza sulla questione della Palestina. La Tendenza rivoluzionaria, l’opposizione all’interno del Swp da cui nacque la Spartacist League negli anni Sessanta, era guidata da un gruppo di quadri che provenivano dalla Independent Socialist League di Shachtman. Nonostante la loro giusta lotta contro la degenerazione del Swp, essi portarono con sé la tradizione di Schachtman riguardo alla Palestina. Lo si vede chiaramente nell’articolo del 1968 “Il conflitto arabo-israeliano: girare i fucili dall’altra parte” (Spartacist n. 11, marzo-aprile 1968), che non solo si schierava retrospettivamente al fianco di Israele nella guerra del 1948, ma auspicava la sconfitta di entrambe le parti nella guerra di espansione sionista del 1967. L’articolo chiedeva “la firma di un trattato di pace sulla base delle linee di confine della tregua del 1949, con cui gli arabi riconoscano il diritto all’esistenza di una nazione ebraica”.

Questa posizione filo israeliana fu cambiata con l’importante articolo: “La nascita dello Stato sionista, parte seconda” (Workers Vanguard n. 45, 24 maggio 1974), con cui la Tendenza spartachista fece propria la posizione meno reazionaria del Swp riguardo alla guerra del 1948: il disfattismo da entrambe le parti. La cosa ridicola è che questo cambiamento di linea non fu spiegato in base al fatto che la posizione precedente era apertamente sionista, ma dicendo che erano emersi dei “fatti nuovi”.

Inoltre, l’articolo sviluppava la cosiddetta teoria dei popoli compenetrati, proclamando che: “La questione democratica dell’autodeterminazione per ciascuna delle due nazionalità o dei due popoli che si compenetrano geograficamente può essere risolta equamente solo nel quadro del potere proletario”. È vero che una giusta risoluzione del conflitto palestinese richiede il potere proletario. Ma lo scopo di questa teoria era di presentare la lotta per l’autodeterminazione palestinese come illegittima, evocando lo spettro per cui una lotta del genere avrebbe violato il diritto di autodeterminazione degli israeliani. In questo quadro, la Tendenza spartachista ha lanciato appelli astratti all’unità di classe, proponendo slogan come “Non ebrei contro arabi, ma classe contro classe!” In anni più recenti, la propaganda della nostra tendenza ha condannato con forza il terrorismo sionista, rifiutando però di porre la liberazione nazionale dei palestinesi al centro della prospettiva rivoluzionaria.

Parlare di autodeterminazione di Israele è un modo di aggirare il problema. Gli israeliani hanno già uno Stato che serve ad impedire ai palestinesi di avere il proprio. Nelle condizioni attuali, rifiutare di lottare per l’autodeterminazione palestinese in nome dell’autodeterminazione israeliana equivale solo a difendere lo status quo sionista. Il vero problema è che i palestinesi devono poter esercitare il loro diritto all’autodeterminazione, compatibilmente con la permanenza di una nazione ebraica in Medio Oriente. Questo è possibile solo sotto forma di un singolo Stato binazionale, la cui base dev’essere la risoluzione dell’ingiustizia storica commessa contro i palestinesi e in cui entrambe le nazioni godano di pieni diritti democratici per quanto riguarda la lingua, la cultura e la religione. Un tale Stato può essere istituito solo con la distruzione dello Stato sionista e con un sollevamento rivoluzionario nell’intera regione.

Se adesso la Lci ha respinto e tracciato una netta linea di demarcazione contro la teoria pseudo-marxista dei popoli compenetrati, altre organizzazioni che vengono dalla stessa tradizione (come la Lega per la quarta internazionale, la Tendenza bolscevica e la Tendenza bolscevica internazionale) continuano a difendere questa eredità di capitolazione al sionismo.

Il nazionalismo arabo e la sconfitta del 1967

Nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, scoppiarono rivolte anticoloniali in tutto il mondo dal Vietnam all’Algeria all’America Latina. In Egitto nel 1952, il colpo di stato degli Ufficiali liberi spazzò via il fantoccio britannico re Farouk e portò al potere il colonnello nazionalista radicale Gamal Abdel Nasser. Spinto dalla sconfitta del 1948 per mano di Israele, Nasser cercò di liberare l’Egitto dall’imperialismo e di modernizzare il Paese. Promosse il nazionalismo panarabo, invocando l’unità degli Stati della Lega araba per cacciare gli imperialisti e i sionisti dalla regione. Nel 1956, Nasser nazionalizzò il Canale di Suez, sottraendolo ai proprietari britannici e francesi, e lo chiuse alla navigazione israeliana. Questo gesto fu estremamente popolare in Medio Oriente e in tutto il Terzo mondo. In risposta, Israele invase l’Egitto insieme a Gran Bretagna e Francia. Ma su forte pressione degli Stati Uniti e dell’Urss, le forze d’invasione si ritirarono poco dopo con un’umiliante sconfitta.

Nel maggio 1967, Nasser chiuse nuovamente il canale alle navi israeliane. Israele si vendicò ancora una volta e, con un attacco aereo preventivo, distrusse quasi tutta la forza aerea egiziana per poi lanciare un’offensiva di terra nella penisola del Sinai e nella Striscia di Gaza occupata dagli egiziani. Ciò provocò una nuova guerra tra la Lega araba e Israele, che si concluse con un’altra disastrosa sconfitta per gli arabi. Alla fine della cosiddetta Guerra dei sei giorni, Israele si era impadronito delle alture siriane del Golan, della Cisgiordania annessa alla Giordania (compresa Gerusalemme Est) e della Striscia di Gaza occupata dall’Egitto. Circa 300 mila palestinesi su un milione vennero cacciati dalla Cisgiordania, un altro spostamento che avrebbe avuto conseguenze a lungo termine.

Fino a quel momento, i nazionalisti palestinesi avevano riposto le loro speranze nei regimi arabi come quello di Nasser per portare avanti la loro liberazione. Ma la sconfitta del 1967 dimostrò chiaramente che Israele, sostenuto dall’imperialismo, superava di gran lunga le forze arabe nella guerra convenzionale. A seguito di questa sconfitta, sommata ai continui tradimenti dei regimi arabi, i nazionalisti palestinesi conclusero che dovevano diventare più indipendenti dai loro sponsor e rilanciarono la strategia guerrigliera ispirata ai modelli di Cuba e del Vietnam.

In questo contesto, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) di Yasser Arafat divenne la principale forza del movimento nazionalista palestinese. Riflettendo il nuovo orientamento, nel 1968 Arafat modificò la Carta nazionale della Palestina per affermare che “l’azione di commando costituisce il nucleo della guerra di liberazione popolare palestinese”. L’Olp aveva ancora bisogno del sostegno dei regimi arabi, che si assicurò adottando il principio della “non interferenza”, ossia accettando di non criticarli. Il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) e il Fronte democratico per la liberazione della Palestina, entrambi più di sinistra e di ispirazione marxista-leninista, criticarono la capitolazione dell’Olp ma ne condivisero nel complesso la strategia guerrigliera. Intorno alla fine degli anni Sessanta e negli anni Settanta vi furono una serie di dirottamenti, attentati e rapimenti, tra cui il rapimento e la morte di atleti israeliani durante le Olimpiadi di Monaco del 1972.

Il terrorismo individuale come tattica è sempre stato rifiutato dal movimento marxista, che basa la sua prospettiva sulla mobilitazione di massa dei lavoratori. La natura del conflitto palestinese conferisce alla strada della guerriglia un ruolo ancora più disperato e controproducente. In primo luogo, a differenza delle “repubbliche delle banane” fondate sulla corruzione imperialista, lo Stato israeliano si basa sulla forza militarizzata di un’intera nazione. Questo, insieme al gigantesco appoggio che riceve dai suoi sponsor imperialisti, rende impossibile per i palestinesi distruggere lo Stato di Israele con mezzi militari convenzionali, tanto meno con la guerriglia. In secondo luogo, gli atti di terrorismo contro i civili israeliani non indeboliscono ma rinsaldano la fortezza sionista, cementando la popolazione ai suoi governanti. In terzo luogo, lo scopo della guerriglia in Palestina è sempre stato quello di fare pressione sui regimi arabi o sulle potenze imperialiste affinché intervenissero a favore dei palestinesi, un’impresa futile e suicida.

Questo non significa che i marxisti rifiutino la resistenza armata. Al contrario: la resistenza militare, basata anche su fronti uniti con le forze nazionaliste, è cruciale. Ma dev’essere parte integrante di una strategia rivoluzionaria più ampia, che includa la conquista di un segmento della società israeliana, in particolare della classe operaia. Non si tratta di considerazioni umanitarie, ma di una necessità vitale per la causa palestinese. Non c’è altra strada che quella di distruggere Israele dall’interno. Anche se Israele fosse in qualche modo sconfitto con mezzi puramente militari, basta pensare a Masada, quando gli ebrei assediati dai romani scelsero il suicidio di massa piuttosto che la sconfitta, per capire cosa sarebbero disposti a fare i fanatici sionisti di fronte a una minaccia esistenziale proveniente dall’esterno.

Dopo il 1967, la maggior parte della sinistra occidentale è passata dalla capitolazione al sionismo liberale all’entusiasmo per la resistenza nazionale palestinese e per la via guerrigliera. Questo ha impedito che i migliori elementi dei nazionalisti passassero al comunismo. Alla fine, molti tra i coraggiosi combattenti di questa generazione furono massacrati dal Mossad. Tra di loro ricordiamo Ghassan Kanafani, un dirigente del Fplp che fu fatto saltare in aria nella sua auto nel 1972.

Oggi come allora, è necessario opporsi al metodo del terrorismo individuale. Invece di conciliare i nazionalisti palestinesi, il dovere dei marxisti è quello di conquistarli a una prospettiva operaia internazionalista. Come Lenin ha spiegato nell’articolo già citato:

“Dall’altro lato, i socialisti delle nazioni oppresse debbono particolarmente difendere e attuare l’unità completa e incondizionata, quella organizzativa compresa, degli operai della nazione oppressa con quelli della nazione dominante. Senza questo non è possibile, date le manovre di ogni specie, i tradimenti e le infamie della borghesia, difendere la politica autonoma del proletariato e la sua solidarietà di classe con il proletariato degli altri Paesi, poiché la borghesia delle nazioni oppresse trasforma continuamente le parole d’ordine della liberazione nazionale in un inganno per gli operai”.

I socialisti israeliani del Matzpen

L’organizzazione più radicale e antisionista della sinistra israeliana fu il Matzpen. Fondata nel 1962, crebbe dopo la guerra del 1967, quando iniziò a sostenere che Israele era uno Stato coloniale di insediamento sin dalla nascita e ad appoggiare l’autodeterminazione dei palestinesi. Il Matzpen sosteneva che “solo il riconoscimento della fondamentale natura dell’ideologia sionista e la totale rottura con essa permette di affermare una posizione internazionalista che sia la base per una battaglia comune tra rivoluzionari israeliani e palestinesi” (L’escalation militare nella società israeliana, matzpen.org, 10 febbraio 1972). Tuttavia, non pensavano che la classe operaia israeliana potesse essere strappata al sionismo:

“sebbene i conflitti di classe esistano nella società israeliana, essi sono limitati dal fatto che la società nel suo complesso è sovvenzionata dall’esterno. Questo status privilegiato è legato al ruolo di Israele nella regione e, finché questo ruolo continuerà, ci sono poche possibilità che i conflitti sociali interni acquisiscano un carattere rivoluzionario. D’altra parte, una svolta rivoluzionaria nel mondo arabo cambierebbe la situazione.” (“Il carattere di classe della società israeliana”, matzpen.org, 10 febbraio 1972).

Il Matzpen concepiva il proprio ruolo in Israele come una sorta di attesa dell’arrivo della rivoluzione araba dall’esterno. Inoltre pensava che non la classe operaia, ma solo i giovani israeliani, cioè gli studenti e gli intellettuali, potessero rompere con il sionismo. Invece di fare affidamento sull’interesse materiale che i lavoratori hanno nella rivoluzione, questo punto di vista si basa sulle mutevoli idee “progressiste” degli strati sociali piccolo-borghesi. Perciò la rivendicazione del Matzpen di “de-sionistizzare” Israele si riduceva ad un appello moralista alla piccola borghesia illuminata.

Oggi, gruppi come il British Socialist Workers Party elogiano il Matzpen appropriandosi del suo lato più debole. Sostengono che, a differenza dei lavoratori del resto del mondo, la classe operaia israeliana non lotterà mai per la rivoluzione perché trae vantaggio dall’oppressione dei palestinesi. Un esempio che fanno è che “Il salario medio dei lavoratori israeliani è quasi doppio rispetto a quello dei palestinesi” (“Qual è il ruolo della classe operaia di Israele”, socialistworker.co.uk, 16 gennaio 2024).

È vero che i lavoratori israeliani godono di uno status privilegiato nella regione grazie all’alleanza di Israele con l’imperialismo americano. Ma l’oppressione palestinese non è nell’interesse di classe dei lavoratori israeliani. Le condizioni di vita delle masse israeliane sono molto peggiori di quelle della Gran Bretagna, degli Stati Uniti o della Germania, e Israele ha il secondo tasso di povertà del mondo sviluppato. Le condizioni di vita oppressive (la militarizzazione della società, il dominio della reazione religiosa, l’oppressione razziale, le forti disuguaglianze) sono tutte prodotte dall’oppressione dei palestinesi. Questa polveriera teocratica di oppressione di classe, etnica e di genere è tenuta insieme principalmente dall’ideologia sionista. Esiste una base materiale per conquistare la classe operaia israeliana alla rivoluzione e alla liberazione della Palestina, che richiedono la completa rottura con il sionismo.

Prendiamo l’esempio degli ebrei arabi, i mizrahim. Questi ebrei, che vivevano in tutto il Medio Oriente, furono costretti a emigrare in Israele dalla crescita dell’antisemitismo fomentato dai regimi arabi e dalle provocazioni sioniste dopo la Nakba. In Israele vennero trattati allo stesso modo in cui i sionisti trattavano tutti gli altri arabi: come selvaggi retrogradi. Negli anni Settanta, i mizrahim costituivano il 50 percento della popolazione ebraica israeliana. Sebbene il loro status fosse superiore a quello dei cittadini palestinesi di Israele, la classe dirigente ashkenazita li teneva al fondo della società ebraica israeliana, condannandoli ai lavori peggiori, alla segregazione e alle peggiori condizioni di vita. É così ancora oggi.

I mizrahim hanno tutto da guadagnare dalla lotta per la liberazione dei palestinesi, che sono oppressi dal loro stesso Stato sionista e dalla loro stessa classe dirigente. Ma nel tentativo di integrarsi nella società israeliana, questo strato spesso fa suo il sionismo più fanatico. Questa contraddizione va al cuore del problema della rivoluzione in Israele. Gli strati ideologicamente più reazionari sono quelli che avrebbero le maggiori ragioni concrete per ribellarsi, mentre gli strati liberali cui si rivolge gran parte della sinistra in realtà son quelli materialmente più legati allo status quo.

L’ordine mondiale post-sovietico e la sconfitta di Oslo

Gli anni Ottanta furono un periodo di sconfitte e di riflusso della lotta palestinese. La guerra del Libano del 1982 si risolse in un disastro per l’Olp e nel 1987 la prima Intifada fu brutalmente repressa nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania. Queste sconfitte militari andarono di pari passo con il crescente isolamento dell’Olp in un contesto internazionale caratterizzato dall’aumento dell’aggressività americana e dalla ritirata sovietica. Con il crollo dell’Urss nel 1991-‘92, l’ordine mondiale cambiò radicalmente. Questo ha provocato un cambiamento ideologico nella lotta palestinese, la cui direzione è diventata sempre più conservatrice, riluttante a lottare e alla disperata ricerca di un accordo.

Nel marzo 1991, il presidente degli Stati Uniti George Bush Sr. annunciò: “È giunto il momento di porre fine al conflitto arabo-israeliano” e fece da mediatore ai primi colloqui di pace che includevano Israele e Palestina, oltre a Egitto, Siria, Giordania e Libano. Il suo successore, Bill Clinton, ne seguì le orme proclamandosi artefice della pace in Medio Oriente. Le altisonanti pretese imperialiste degli Stati Uniti erano sintomatiche del periodo, caratterizzato dall’egemonia statunitense e dal trionfo del liberalismo nella Guerra Fredda. Gli Stati Uniti potevano permettersi di intraprendere grandi progetti per la “pace sulla terra” all’insegna della Pax americana. Naturalmente, la loro versione della pace consisteva nella sottomissione del popolo palestinese e nella stabilizzazione della sicurezza di Israele.

Gli accordi di Oslo, mediati dagli Stati Uniti all’inizio degli anni Ottanta, segnarono la completa capitolazione dell’Olp, che riconobbe lo Stato sionista, facendo carta straccia della Costituzione dell’Olp del 1968 che definiva la Palestina “un’unità territoriale indivisibile”. L’Olp accettò anche che gli insediamenti ebraici in Cisgiordania restassero sotto il controllo israeliano e che fosse costituita l’Autorità palestinese (Ap) che amministrando i territori controllati dai palestinesi, avrebbe fatto da sgherro di Israele in Cisgiordania e a Gaza. Col pretesto dei negoziati in corso, l’Olp lasciò che Israele controllasse l’acqua e che l’Autorità palestinese rinunciasse a qualsiasi autorità sulle relazioni estere, sulla sicurezza esterna o sugli israeliani che vivevano nel territorio amministrato dai palestinesi. Gli accordi di Oslo offrivano un ministato, un bantustan, e persino questa grottesca promessa fu disattesa.

L’obiettivo degli accordi di Oslo era di placare i palestinesi e congelare il conflitto, facendo balenare la speranza di una soluzione a due Stati. I sionisti approfittarono della capitolazione dell’Olp per aumentare costantemente la pressione sui palestinesi, riducendone sempre più i territori e attaccando costantemente Gaza e la Cisgiordania. Questo processo è culminato nella firma degli Accordi di Abramo del 2020 sotto l’amministrazione Trump, che ha posto le basi per la normalizzazione delle relazioni degli Stati arabi con Israele, riconoscendone la sovranità. Presentati come un trionfo per Israele, gli accordi promettevano che la causa palestinese sarebbe stata relegata ai margini della storia.

Ma la morsa sempre più brutale sui palestinesi non poteva non suscitare la loro risposta. L’aperto tradimento dell’Olp ha spinto sempre più palestinesi a sostenere Hamas e le altre forze islamiste che vogliono uno scontro più duro con Israele. Gli sporadici scontri tra Israele e Hamas che hanno punteggiato l’ultimo decennio, sono culminati nell’attacco diretto a Israele con l’Operazione Tempesta di Al-Aqsa del 7 ottobre 2023. Il 7 ottobre e la risposta genocida di Israele, hanno sconvolto l’equilibrio nella regione affossando definitivamente gli accordi di Oslo. La crescente brutalità del conflitto va di pari passo con il declino dell’egemonia americana, che suscita turbolenze nella situazione mondiale. È in questo nuovo contesto che i rivoluzionari devono muovere i prossimi passi nella lotta per la liberazione della Palestina.

Le prospettive marxiste oggi

L’attacco di Hamas ha sconvolto lo status quo nella regione, ma lo status quo politico della sinistra marxista, fatto di disorientamento e capitolazione, non si è mosso di un millimetro. I socialisti di ogni denominazione continuano a oscillare tra i due poli del sionismo e del nazionalismo arabo.

A destra troviamo gruppi come Lutte Ouvrière in Francia e Lotta comunista in Italia che, pur opponendosi ai bombardamenti di Israele su Gaza, condannano la lotta per la liberazione della Palestina come una causa nazionalista reazionaria. Leggermente più a sinistra, ma grosso modo nella stessa categoria, ci sono il Comitato per un’internazionale dei lavoratori e Alternativa socialista internazionale, che nascondono il loro rifiuto della liberazione nazionale della Palestina dietro la solidarietà liberale con il movimento e vuote astrazioni del tipo:

“Serve un movimento internazionale di massa della classe operaia che superi il militarismo, il nazionalismo e il settarismo. Un movimento che si opponga alle classi dirigenti di tutti i Paesi, che traggono vantaggio dal mantenimento dello status quo e unisca i lavoratori per abbattere tutti i regimi reazionari sulla base di un programma socialista rivoluzionario di pace e stabilità per tutti” (“Fermare il massacro a Gaza una volta per tutte”, socialistalternative.org, 4 giugno 2024).

I luoghi comuni sull’unità della classe operaia contro il capitalismo non significano nulla se non si basano sulla liberazione nazionale dei palestinesi. Occorre capire che il punto di partenza dell’unità tra i lavoratori palestinesi e israeliani è il rifiuto del sionismo e che la rivoluzione socialista è possibile solo mettendo in primo piano le aspirazioni nazionali dei palestinesi.

All’estremo opposto dello spettro ci sono gli esponenti della sinistra che acclamano acriticamente la direzione del movimento palestinese. Il Partito per il socialismo e la liberazione (Psl) negli Stati Uniti è esplicito a riguardo: “Il ruolo del movimento negli Stati Uniti non è di criticare l’ideologia o la strategia del movimento di liberazione palestinese, ma di fare la sua parte per aiutare i palestinesi a rovesciare il giogo del colonialismo in modo da poter decidere da soli come vogliono organizzare la loro società” (“Perché il movimento per la Palestina è una lotta di liberazione nazionale”, liberationnews.org, 3 marzo). La maggior parte, come il Swp britannico, sono meno espliciti e criticano i metodi e l’ideologia di Hamas. Ma pur esitando, non cercano in alcun modo di contrastare la presa del nazionalismo sulla lotta palestinese.

Per tutti questi gruppi, il ruolo dei comunisti non consiste nel dare al movimento una direzione rivoluzionaria, ma nell’essere bravi soldati agli ordini dei liberali e dei nazionalisti. Su questo, le due tendenze convergono. A prescindere dalla loro posizione sulla Palestina, la maggior parte dei gruppi marxisti esalta il movimento di protesta, nascondendo il fatto che è guidato da liberali filo-imperialisti, quando non li appoggiano apertamente come fanno con Rashida Tlaib, un’esponente del Partito democratico americano, o con il deputato laburista e tirapiedi della Nato John McDonnell in Gran Bretagna.

Il ruolo più subdolo però lo svolgono i centristi, come Left voice e la Fracción trotskista. Costoro sanno identificare esattamente le questioni cruciali per il movimento. Ad esempio in un articolo sugli Stati Uniti hanno scritto:

“Fin dall’inizio, gruppi come Jewish Voice for Peace e il Party for Socialism and Liberation o i capi delle Ong, hanno trasformato il movimento in una campagna di pressione, invece di farne un movimento volto a costruire il potere indipendente della classe operaia e dei popoli oppressi”. (“Al movimento per la Palestina serve una politica operaia indipendente”, leftvoice.org, 7 aprile)

Giustissimo. Ma quali conclusioni pratiche trae Left voice da questa analisi? Incentra i suoi interventi nel movimento palestinese sulla rottura con la direzione liberale amica del Partito democratico? Assolutamente no. La maggior parte della sua attività consiste nel lanciare vuoti appelli a “creare un movimento di massa” e a organizzare “azioni unitarie nelle strade”. A volte, polemizzando con gli esponenti del Psl, ne dimostra la capitolazione ad Hamas o al Partito comunista cinese e ne critica persino la conciliazione con i democratici. Ma Left voice non dice una parola sul sostegno che danno a Rashida Tlaib, la figura principale che lega il movimento palestinese al Partito democratico del genocidio. Anzi, Left voice ha evitato accuratamente di denunciare il ruolo infido della Tlaib.

Smascherare Tlaib negli Stati Uniti, Mélenchon in Francia e John McDonnell in Gran Bretagna non è una questione secondaria. Chiunque voglia seriamente liberare il movimento palestinese dalle sue catene liberali, deve smascherare proprio queste figure “di sinistra”. Una cosa è dire: “bisogna opporsi ai democratici”. Un’altra dire: “Bisogna opporsi a Rashida Tlaib”. La prima è del tutto compatibile con il liberalismo radicale. La seconda attacca direttamente le illusioni propagate dal liberalismo.

Nelle sue polemiche con Kautsky, Lenin condannava esattamente il centrismo tipico di Left voice. Kautsky era capacissimo di condannare la guerra in generale e l’ala destra del Partito socialdemocratico. Ma rifiutava di lottare per la scissione dagli elementi social-sciovinisti del movimento operaio. Oggi, Left voice è in grado di chiedere in generale la rottura con i democratici. Ma si rifiuta di lottare per una scissione dalla componente borghese “di sinistra” del movimento.

È proprio questo il compito decisivo dei comunisti ed è il principio che ha guidato l’intervento della Lci nel movimento palestinese dal 7 ottobre. Nei Paesi in cui siamo intervenuti, abbiamo cercato di dimostrare la necessità di una direzione comunista, proponendo una prospettiva che faccia concretamente avanzare il movimento, mostrando al contempo i limiti e il tradimento dei suoi attuali dirigenti. É questa la differenza tra i centristi, che osservano il problema solo per evitarlo, e i rivoluzionari, che tracciano una rotta per superare gli ostacoli alla vittoria.


La lotta di liberazione palestinese entra in un nuovo capitolo che mette nuovamente alla prova i marxisti. In Palestina, i rivoluzionari devono partecipare attivamente e organizzare la lotta contro l’attacco israeliano, anche attraverso azioni congiunte con gli altri gruppi della resistenza palestinese. Ma devono rifiutarsi di mescolare le bandiere e sfruttare invece ogni occasione per sottoporre la strategia islamista a critiche spietate, mettendo sempre al primo posto l’interesse dell’intero movimento. Allo stesso tempo, i rivoluzionari devono lavorare all’interno della società israeliana, specialmente nella classe operaia e nell’esercito, per rafforzare ogni espressione di rabbia nei confronti del governo sionista, per legarla alla causa palestinese e per facilitare la rottura con il sionismo in tutte le sue forme.

Nel mondo musulmano, i rivoluzionari devono galvanizzare il diffuso sentimento filopalestinese delle masse lavoratrici, collegarlo all’oppressione imperialista dell’intera regione e orientarlo verso la lotta contro le corrotte cricche al potere. L’opposizione incondizionata all’imperialismo e la ferma opposizione ai nazionalisti sono condizioni preliminari per unire tutti gli operai e i contadini, in particolare quelli appartenenti alle minoranze nazionali oppresse (come i curdi) che gli imperialisti cercano di usare nella logica del divide et impera. Nel Sud globale, i boicottaggi e gli appelli diplomatici non servono a niente. I rivoluzionari devono spingere la lotta ad indebolire la posizione degli imperialisti statunitensi, che sono la principale potenza che sostiene Israele e il loro principale oppressore.

In Occidente, come già detto, i rivoluzionari devono lottare per la rottura con i capi liberali e riformisti del movimento. In particolare, devono lottare nel movimento operaio per smascherare la politica social-sciovinista dei dirigenti sindacali, mostrando che il sostegno a Israele (esplicito o mascherato) va di pari passo con il loro sabotaggio delle lotte più elementari per le condizioni di vita dei lavoratori.

Su tutti i fronti, la lotta per la liberazione della Palestina pone i rivoluzionari di fronte alla necessità di opporsi frontalmente a coloro che la dirigono. Un secolo di capitolazioni del movimento marxista di fronte al sionismo e al nazionalismo è stato pagato con il sangue dei palestinesi, ha portato a innumerevoli tradimenti e sconfitte e ha impedito una soluzione proletaria alla loro oppressione nazionale. Il compito adesso è di costruire una direzione comunista della lotta palestinese e antimperialista, l’elemento decisivo che è mancato negli ultimi cent’anni.